Chiosso: Istruzione ed educazione, fattori chiave


Prof. Giorgio Chiosso, Ordinario di storia dell’educazione all’Università di Torino

 

Istruzione ed educazione, fattori chiave di sviluppo nella società della conoscenza

 

 

            In tutta l’Europa la scuola sta cambiando. Il modello scolastico erede della tradizione ottocentesca sembra aver esaurito ormai da qualche decennio la sua spinta propositiva, lasciando spazio a una fase di transizione e di reorientamento. Questa fase è segnata da fenomeni a tutti largamente noti quali l’espansione della scolarizzazione e della formazione, la generalizzazione delle nuove tecnologie della comunicazione, l’esigenza di una maggiore equità per assicurare una democrazia non soltanto formale ma sostanziale, le ricadute dei processi migratori sul piano dell’integrazione culturale e sociale.

            I due capisaldi del modello scolastico che tra Otto e Novecento ha assicurato non solo la sconfitta dell’analfabetismo, ma l’estensione del diritto d’istruzione a quote di popolazione sempre più ampie – la promozione della coscienza civica nelle sue varie interpretazioni e la trasmissione /rielaborazione dell’eredità culturale – sono oggetto di ripensamento e di riflessioni non soltanto tra gli studiosi che si occupano direttamente di questioni legate all’apprendimento e all’educazione/formazione in genere, ma anche tra quanti indagano il possibile futuro delle nostre società in prospettiva politica, sociale, economica.

            Credo che qualsiasi ragionamento sul futuro della scuola e dell’educazione scolastica non possa prescindere dalle tesi oggi a confronto sulle quali intendo soffermarmi in rapida sintesi, riservandomi nella parte conclusiva dell’intervento di prospettare qualche traccia propositiva.

 

            Nel campo delle culture pedagogiche e delle politiche dell’istruzione e della formazione i progetti in campo si possono ricondurre a due principali famiglie:

  • quelli predisposti in funzione di una società che si desidera più giusta e al tempo stesso anche capace di reagire alle sfide economiche del nostro tempo. Possiamo parlare in questo caso di teorie pedagogiche funzionaliste
  • e quelli che invece sono prioritariamente ordinati in rapporto al soggetto che apprende e che impara a convivere. In questo secondo caso parliamo di teorie pedagogiche personalizzanti.  

 

La distinzione che viene proposta – per quanto necessaria per cogliere le diverse posizioni in campo educativo e scolastico – non va naturalmente assunta in modo rigido. Va subito precisato che, come nei progetti a più netta marcatura socio-funzionalista non viene mai meno l’interesse per il soggetto sia pure con motivazioni diverse tra le varie posizioni (solidaristi e neo liberali), così in quelli segnati da una maggiore attenzione ai processi personali non si rinunzia a considerare gli aspetti sociali e la persona è sempre concepita come soggetto di socializzazione primaria e secondaria.       

 

 

            Un primo e importante punto di riferimento delle politiche scolastiche è rappresentato dalle tesi di quanti richiamano la priorità dell’esigenza dell’equità educativa. La prima responsabilità della scuola consisterebbe nella garanzia del reale accesso da parte di tutti i cittadini ai beni dell’istruzione e del sapere. Nell’agenda politica e sociale dei maggiori Paesi del mondo occidentale questo tema rappresenta uno degli assi più ricorrenti messi in campo.           

C’è una linea di continuità diretta tra la centralità oggi assegnata all’equità e le tesi di quanti a partire dalla fine degli anni Sessanta denunciarono le iniquità dei sistemi scolastici tradizionali ritenuti funzionali alla semplice riproduzione degli assetti sociali esistenti. Molta acqua da allora è tuttavia passata sotto i ponti. Alla cultura antagonista  di quegli anni venata di forti tinte ideologiche si è sostituita una declinazione del tema dell’equità più pragmatica e realista. Si è superata, almeno in via di principio, la convinzione alquanto schematica (ma resistente nel tempo) secondo cui l’equità sarebbe garantita nel momento in cui si assicurano a tutti in egual misura le medesime opportunità scolastiche e gli stessi servizi incentrati nella fattispecie sulla cosiddetta teoria del rinforzo (se non vai bene a scuola, resti più ore a scuola).

          Marie Duru-Bellat, una studiosa francese molto nota e apprezzata per i suoi studi in argomento, ha recentemente dimostrato in un piccolo libro apparso qualche tempo fa come a questa concezione dell’equità – che ha segnato le politiche dell’istruzione in molti Paesi europei negli ultimi decenni – sia corrisposto il fenomeno che l’autrice ha definito dell’“inflazione scolastica”. Contro ogni aspettativa migliorativa, il risultato è deludente. Infatti proprio i ceti più deboli hanno pagato e stanno pagando a caro prezzo il costo legati al prolungamento degli studi dei figli senza tuttavia che siano aumentate le loro chances di successo e che la piramide sociale sia stata riequilibrata.

         Era una tesi già adombrata in un celebre saggio del 1973 nel quale Raymond Boudon osservava che nonostante il forte incremento fatto della scolarità e gli interventi per la diminuzione delle ineguaglianze non si verificava alcun tipo di mobilità sociale e neppure alcun tipo di riequilibrio delle inequità scolastiche. Il generale allungamento delle carriere scolastiche faceva sì che per ottenere lo stesso posto di lavoro occorreva un titolo di studio più alto di prima. In altre parole i benefici tratti dalle persone delle classi medie e inferiori dalla lenta democratizzazione scolastica erano resi illusori dall’aumento generale della domanda d’istruzione.   

            Oggi il problema dell’equità viene impostato – almeno nella letteratura internazionale, forse un po’ meno in Italia – ricorrendo, come ho accennato, a parametri meno ideologici e più concreti. L’asse del dibattito si è spostato dalle tesi a forte connotazione politica alla individuazione delle strategie più efficaci perché l’equità non resti un’affermazione di principio.

Un gran numero di studi sta indagando come si possa, per esempio, superare gli squilibri di partenza esistenti tra le scuole dovuti all’ambiente e alla popolazione scolastica, squilibri che, a loro volta costituiscono il vincolo negativo rispetto a una reale promozione dell’equità. Non è, poi, irrituale la congiunta analisi tra promozione del merito e quella dell’equità nonché la valorizzazione delle possibilità formative connesse con la pluralità dei percorsi scolastici e di formazione professionale. Il riconoscimento dell’equivalenza formativa dei piani di studio raccoglie il testimone di un altro motivo ricorrente nel dibattito degli anni Settanta e cioè quello del cosiddetto policentrismo formativo sovrastato nei decenni passati dalla cultura scuolacentrica che concepiva la pluralità dei percorsi non come una opportunità di cui approfittare, ma come un vulnus all’uguaglianza degli allievi.      

Mi sembra di poter dire che la discussione intorno all’equità ha superato, almeno in via di principio, un egualitarismo spesso condizionato da rigide letture ideologiche per approdare a posizioni che si sforzano di trovare soluzioni idonee – senza farle ricadere soltanto sulla responsabilità delle scuole – per contrastare fenomeni come l’abbandono scolastico, la bassa scolarizzazione dei soggetti socialmente più deboli, la mediocre qualità degli apprendimenti.

Il modello scolastico centrato sull’equità è certamente molto convincente, ma anche esposto – se non viene integrato da altre componenti come, ad esempio, il valore del sapere, il merito, la promozione dell’eccellenza – al rischio di arenarsi in esiti di tipo assistenziale con uno spostamento del baricentro dell’azione scolastica dall’apprendimento alla cura.         

 

 

            Il tema della scuola equa s’intreccia più di quanto non si direbbe ad uno sguardo superficiale al modello scolastico funzionalista neoliberale che ha avuto, in particolare, negli ultimi due/tre decenni una larga diffusione nella cultura educativa e scolastica occidentale allo scopo di stringere in un’unica strategia politiche culturali, professionalizzazione degli studi e sviluppo economico.

Questo stretto collegamento è spiegato dal fatto che nelle società tecnologicamente avanzate e a democrazia matura non è sostenibile una quota di persone non professionalmente preparate per essere produttive e formate per essere virtuose sul piano della condivisione civica. Le moderne teorie del “capitale umano” o, se si preferisce, della “società della piena conoscenza” concepiscono il sapere e l’eticità collettiva in termini di funzionalità rispetto allo sviluppo economico. Quando i grandi organismi sovra nazionali di governo o di orientamento dell’azione dei governi – come, ad esempio, la Banca Mondiale, l’Unione Europea, l’Ocse – insistono sull’incremento dei finanziamenti all’istruzione e alla formazione professionale lo fanno precisamente nella prospettiva dell’investimento economico ormai concepito a maglie larghe e secondo impostazioni ben più sofisticate rispetto al capitalismo tradizionale.

Il modello scolastico e formativo che ne scaturisce è quel medesimo che, fin dal XVIII secolo, fu messo a punto dalle teorie dell’utilitarismo illuminista. Nella sua fondamentale opera La ricchezza delle nazioni (1776) Adam Smith, ad esempio, riteneva necessario facilitare, incoraggiare e anche rendere obbligatori per tutto il popolo gli elementi essenziali dell’istruzione. La diffusione della scuola non era guardata più con sospetto o confinata nella dimensione caritativa, ma veniva giudicata come un mezzo efficace per accrescere la qualità e la quantità della produzione agraria e manifatturiera e per rendere più efficiente il commercio.    

Se considerato in termini culturali il perseguimento dell’equità nella logica funzionalista non è incentrato sul primato dell’uomo, ma è concepito soprattutto in termini di efficacia rispetto al perseguimento di obiettivi economici e sociali. In altre parole – e con qualche semplificazione – potremmo dire che è più economicamente solida una società di persone virtuose e ad alto alfabetismo piuttosto che una società alfabetizzate in modo approssimativo e con scarso senso civico.

Naturalmente non è soltanto la diversa concezione di fondo che anima il principio di equità a documentare la sostanziale (anche se non dichiarata) subalternità della cultura e della scuola allo sviluppo economico. La concezione professionalizzante del sapere e la convinzione che il sapere nella dimensione della competenza sia misurabile si configura, a sua volta, come una vera e propria ideologia intorno a cui ruota quello che solitamente è stato definito il progetto della “scuola efficace”. Questo modello formativo (che si affida in larga parte alle misurazioni e diffida dalla nozione di educazione in quanto ancora troppo impregnata di una prospettiva teleologica) si congiunge con una concezione procedurale della democrazia con la precedenza al riconoscimento dei diritti individuali rispetto alla nozione di bene condiviso.

Il funzionalismo produttivistico è in sostanza coerente con una visione che si vorrebbe eticamente neutra, temperata soltanto dal riconoscimento della necessità di condividere alcuni valori di cittadinanza. I progetti del neoliberalismo socio-economico richiamano certamente le scuole alla loro responsabilità di fronte all’esigenza di efficienza, produttività, economicità, ma rischiano di confondere il sapere con il sapere applicato, l’educazione con la formazione professionale, l’eticità con le convenienze della convivenza.    

 

 

Per restare ancora un momento sul terreno delle teorie educative e pedagogiche di tipo sociale, su un piano del tutto diverso si pongono quanti sono convinti che il futuro delle società avanzate sarà segnato dal ritorno della dimensione della vita comunitaria sia come reazione ai processi globalizzanti sia, soprattutto, come superamento dell’individualismo auto referenziale. Le analisi svolte dalla cultura comunitarista, in specie quelle di segno anglosassone, sono particolarmente interessanti perché riconoscono proprio in un bene comune inteso svolgersi di una tradizione il punto chiave intorno a cui ordinare i processi educativi e organizzare le politiche dell’istruzione.

Per i comunitaristi non ci può essere educazione se non c’è il riconoscimento di una comune identità culturale e non se non si condividono solidarmente le responsabilità della vita comune. Narrazione ed esercizio delle virtù sono, ad esempio, i due fondamenti pedagogici invocati da MacIntyre per contrastare gli esiti a suo giudizio nefasti dell’illuminismo in campo etico e recupare assieme alla dimensione dell’eticità comunitaria anche quella educativa.

Siamo in presenza del netto ribaltamento della concezione del funzionalismo economico: l’educazione è esperienza del tutto diversa rispetto alla formazione, non è soltanto adattamento e partecipazione a un progetto di sviluppo e di benessere, ma è essenzialmente condivisione di una storia che si svolge e di cui noi siamo parte. Contro l’individualismo soggettivistico e relativistico i comunitaristi prospettano la reinterpretazione personale e comunitaria degli ideali virtuosi e accettano la sfida della verità che essi colgono soprattutto nello svolgersi della tradizione.

Il loro progetto di “società civile” è intimamente associato a quello di società responsabile, basata sulla volontaria rinuncia della esasperata tutela dei propri margini di libertà attraverso l’unilaterale concezione dei diritti individuali ed affidata, invece, alla capacità responsabile di esercitare in modo comunitario diritti e doveri. Poiché non ci può essere condivisione se non c’è partecipazione la scuola del comunitaristi è una scuola fortemente radicata nelle piccole comunità e radicalmente segnata dalla presenza delle famiglie.

Il pluralismo è concepito non come un fine, ma soltanto come uno strumento per far convivere diverse esperienze comunitarie all’interno di un progetto di democrazia né procedurale né teleologica, ma conversativa: ciascun soggetto sociale ha diritto di esprimersi, nel rispetto delle leggi, mediante le consuetudini educative che sono proprie a ciascun gruppo sociale fino a ipotizzare quando questo non è possibile l’eventualità di una scuola in famiglia così come accade già oggi per circa un milione di bambini e ragazzi statunitensi.

 

 

Vengo ora a considerare le proposte scolastiche centrate sul soggetto che apprende. E’ giocoforza qui incrociare in primo luogo le teorie del costruttivismo svolte soprattutto nell’ambito delle riflessioni sulla natura della conoscenza umana posta all’intersezione tra neuroscienze, psicologia e teorie della complessità. Per quanto riguarda le ricadute di tipo pedagogico all’idea trasmissiva del sapere quale esito di prassi didattiche regolate da procedure testate sperimentalmente viene opposto dal costruttivismo un modello di conoscenza/apprendimento nel quale il soggetto spinto dalla realtà con la quale si confronta e dai propri interessi elabora (“costruisce”) una propria visione attraverso un processo di integrazione delle molteplici prospettive con cui entra in contatto.

Il fine ultimo non è l’acquisizione completa di contenuti specifici prestrutturati e dati una volta per tutti, bensì la messa a punto di una prassi intellettuale che tenda progressivamente a rendere autonomo il soggetto nella gestione della propria conoscenza. Ernest von Glasersfeld (uno dei maggiori esponenti del costruttivismo contemporaneo) ha scritto che “la conoscenza costruttivista non riguarda più una realtà ‘oggettiva’, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione di esperienze nel mondo della nostra esperienza”: la conoscenza e il sapere sono perciò il risultato delle azioni di un soggetto attivo, una vera e propria “operazione” nel senso che a questa espressione diede a suo tempo Piaget (capacità di ordinare sé  e il mondo dell’esperienza o, detto in altro modo, ricerca di atteggiamenti e modi di pensare coerenti) (von Glasersfeld, 1989).

Si tratta, in particolare, di sviluppare la capacità di stabilire nessi e interconnessioni perché il vero apprendimento è quello che implica il continuo riposizionamento dell’individuo all’interno di un intreccio relazionale e la scoperta di  nuove opportunità. Ma questo è possibile nella misura in cui si dà vita a processi che, a loro volta, sono generatori di novità che intensificano e moltiplicano la costruzione di nessi originali. Detto in altro modo il vero sapere – quello che oggi viene definito il “sapere competente” – sarebbe quello che genera altro sapere, innescando un processo virtuoso in grado di assicurare la vitalità cognitiva lungo tutto l’arco della vita.

L’apprendimento e, di conseguenza, l’idea di scuola, che emerge da questa impostazione si configura come il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto (principio della costruttività), collegata ad una situazione concreta in cui essa si svolge (principio della riflessività) e si basa su una “comprensione profonda” della conoscenza e cioè sulla capacità di trasformazione l’informazione in una conoscenza utilizzabile (principio di trasferibilità o di competenza).

Le tesi dei costruttivisti si prestano ovviamente a riflessioni di vario genere che in questa sede non ho il tempo di sviluppare. Mi limiterò pertanto a considerare in rapporto al nostro tema ai possibili esiti applicativi in campo scolastico che conseguono dalla ripresa di un tema peraltro ricorrente nella cultura pedagogica dell’ultimo secolo – e in specie in quella di matrice attivistica – e cioè quello della centralità da riconoscere all’attività del soggetto che apprende. 

 

 

In primo luogo, a mio modo di vedere, c’è un costruttivismo dagli esiti anch’esso a forte connotazione funzionalista coerente con quel modello scolastico che abbiamo definito della “scuola efficace”. Nella “scuola efficace” risulta infatti centrale la pratica di metodologie incentrate sulla promozione di capacità di apprendimento personale. Più che ai contenuti si guarda alla padronanza delle capacità di auto apprendimento e di trasferibilità/applicazione del sapere. Di qui un’attenzione particolare rivolta alle possibili conseguenze che possono scaturire, per esempio, dalle scoperte nel campo delle neuroscienze in materia di funzionamento della mente umana e alle applicazioni che ne possono derivare sul piano dell’operatività didattica.

Non siamo, in questo caso, molto lontani dalla nozione di individualizzazione, anche se praticata con strumenti e pratiche didattiche più molto più sofisticate di quelle a suo tempo messe a punto da Decroly, Dottrens e in genere dagli attivisti di prima e seconda generazione. Si ricrea ad un livello semplicemente più sofistica quella dipendenza della pedagogia e della didattica rispetto ai progressi della scienza neurologica e psicologica con derive segnate da qualche determinismo neo positivistico.   

C’è poi un costruttivismo fortemente interrelato con gli alfabeti info telematici. Il particolare rapporto che si stabilisce tra uomo-macchina nell’elaborazione della conoscenza in rete apre prospettive estremamente interessanti se considerate nell’ottica della costruzione personalizzata del sapere.

La rete ha infatti assunto la fisionomia del modello organizzativo nel quale l’ampiezza e la novità dei mezzi (tecnologici) sembrano non aver né principio né confini precisi ovvero non è dato sapere dove precisamente essa cominci e dove esattamente finisca. L’uomo cibernetico si aggira nel mondo secondo modalità del tutto nuove. Egli riposiziona continuamente la connessione tra il suo io e il mondo, modificando i confini, il “dentro” e il “fuori” del sé.

Ci troviamo ormai in una situazione concettualmente, dunque, ben più avanzata rispetto all’interpretazione dell’impiego del computer, di marca skinneriana, come sostituto dell’insegnante in alcune attività che, se ben programmate possono rinforzare e ottimizzare le capacità di apprendimento degli allievi. Questo schema è superato da un impianto nel quale, per rendere conto della natura del “pensare in rete”, si saldano l’approccio costruttivista sul piano della conoscenza e la prospettiva socio-culturale dell’apprendimento attraverso l’esperienza info-telematica.

Il computer, in questa prospettiva, si comporta non solo come un’opportunità didattica di apprendimento e di auto-apprendimento, ma si configurerebbe come un eccezionale tool che consente l’interazione dei diversi livelli e contesti di conoscenza. Nelson Goodman ha parlato a questo proposito dell’uomo come “costruttore del mondo”.

C’è anche, infine, un costruttivismo che s’incontra con il principio della personalizzazione educativa. Su questo punto vorrei svolgere qualche riflessione più approfondita. Sono infatti convinto che il perseguimento di un uomo ricco non solo di sapere, ma anche di senso, consapevole del proprio irrinunciabile sé ma anche aperto alla dimensione solidarista, disposto ad accettare la sfida che gli è portata dalla propria esistenza e dalla realtà in cui opera possa compiersi soltanto all’interno di una pratica educativa centrata sulla persona che oggi assume la fisionomia della personalizzazione educativa.    

La prospettiva della personalizzazione ha oggi un apprezzabile corso nell’Occidente avanzato, intrecciandosi, in via generale, con le teorie di un nuovo welfare meno anonimo del passato – quello prospettato, per esempio, da Anthony Giddens e Ulrick Beck – e più attento ai bisogni personali e alla costruzione di cittadini responsabili e, sul versante educativo, con quelle elaborazioni pedagogiche che puntano su un [norbot1] modello educativo centrato sulla valorizzazione delle potenzialità/risorse personali, da quelle cognitive a quelle sociali, affettive e creative fino alla formazione della coscienza morale.  

La nozione di personalizzazione educativa poggia su tre pilastri fondamentali.

  • Primo: il soggetto verso cui ci si rivolge è innanzi tutto una risorsa attiva e non solo un utente destinatario dell’intervento, ovvero un soggetto-persona di cui occorre attivare/mobilitare le capacità e promuovere il senso di responsabilità civica e non un oggetto-utente-cliente da prendere in cura o da inquadrare in funzione della sua capacità produttiva.
  • Secondo: la qualità dell’intervento non dipende perciò soltanto dalla sua validità tecnica e professionale, ma va anche considerata in relazione alla rilevanza intersoggettiva e al significato umano.
  • Terzo: il rapporto tra equità ed eguaglianza è considerato in relazione all’esperienza della persona verso cui ci si rivolge. Al concetto di uguaglianza, dunque, garantita dalla uniformità delle prestazioni, viene preferito il principio dell’equità in funzione della diversità delle situazioni personali e del posizionamento sociale di ognuno.

 

C’è dunque un fil rouge che consente di guardare ai rapporti tra costruttivismo e personalizzazione in termini sinergici. Tale sinergia si basa sulla centralità assegnata in entrambi i casi all’iniziativa della persona umana, sia essa considerata nell’ottica dell’apprendimento sia, più estesamente, sia essa concepita come una esperienza globale (integrale) di crescita umana. Il costruttivismo infatti concorre con tutte le altre teorie che si contrappongono alle concezione deterministiche e lineari dell’educazione a una concezione attiva dell’educazione e dunque ad affermare una prospettiva di libertà.     

La centralità riconosciuta all’esperienza della persona sottrae al costruttivismo lasciato a se stesso l’intrinseco rischio di esaurirsi in un cognitivismo funzionalistico bene espresso nella formula ricorrente dell’“apprendere ad apprendere” o in quell’altra non meno abusata della “scuola dell’efficienza e dell’efficacia”. Detto con la metafora di uno dei nostri maestri, Jacques Maritain, il costruttivismo senza la personalizzazione potrebbe aiutarci a meglio far apprendere la matematica a John, senza però contribuire a farci capire chi è John.

Ma anche la personalizzazione gode di alcuni vantaggi quando si rapporta sinergicamente con le forme didattiche e l’impianto organizzativo del cognitivismo costruttivista: in primo luogo quello di sfuggire al rischio di restare prigionieri entro una certa retorica della persona.  

  

 

E’ possibile tenere insieme il bisogno di equità, la valorizzazione della dimensione comunitaria, le indicazioni che sul piano didattico e organizzativo giungono dai sostenitori del costruttivismo, il riconoscimento della centralità etica della persona?

A mio giudizio la personalizzazione dell’insegnamento è la chiave strategica perché tutto ciò possa compiersi e perché questo accada abbiamo bisogno di cambiamenti significativi sul piano dell’organizzazione complessiva del sistema scolastico in termini di maggiore libertà, di pratiche didattiche flessibili e dunque non più incentrate solo sul gruppo classe e sulla centralità della lezione, della formazione degli insegnanti, dei rapporti tra tecnologie info-telematiche e insegnamento. E’ quando si sta già sperimentando in varie parti d’Europa (Inghilterra, Olanda), negli Stati Uniti e in Australia e come documentano studi molto interessanti di pedagogisti e psico-pedagogisti studiosi ancora poco noti in Italia come David Hopkins, Tom Bentley, Charles Leadbeater e altri ancora.

La personalizzazione è anche la via per la promozione non solo di “teste ben fatte”, ma anche di “schiene dritte”. La stabilità di una società non dipende soltanto dal buon funzionamento delle istituzioni, dall’onestà della classe dirigente, dalla capacità di emanare leggi giuste, ma anche dall’esercizio del senso etico e dalle virtù civiche dei cittadini. L’efficacia delle norme è direttamente proporzionale al senso morale delle persone e cioè alla motivazione interna, prima ancora che a sistemi di rinforzo esogeno, come possono essere gli schemi di incentivo o le norme di legge.

Otfried Höffe ha parlato delle “virtù civiche” come di veri e propri “elementi costitutivi dell’integrità democratica” e le ha elencate in una lista che include sentimenti come il coraggio civile, il senso civico e quello di appartenenza, la capacità di esercitare la giustizia e la tolleranza e di agire su se stessi in termini di temperanza, prudenza e controllo delle proprie emozioni.

Si potrebbe riassumere la nozione di virtù civica come la capacità dei cittadini di subordinare il proprio interesse per il bene comune. La scuola può essere un posto idoneo a esercitare gli allievi nella padronanza non solo dei saperi e delle competenze, ma anche delle virtù civiche.    

 

Prima di concludere occorre ora interrogarci a quali condizioni sia possibile praticare i terreni pedagogici della personalizzazione e quelli socio-politici delle virtù civiche.

Bisogna in primo luogo rafforzare l’alternativa al modello della scuola uniforme e centralizzata lavorando per un modello educativo e scolastico polifonico – quando dico polifonico intendo dire costituito da più realtà tra loro collegate in rete secondo un principio cooperativo – incentrato sulla capacità delle comunità scolastica e sociale di mettere in campo buone pratiche capaci di far interagire, secondo i bisogni propri di quelle specifiche comunità, tradizione e innovazione, responsabilità parentali e vincoli sociali. I processi educativi risultano tanto più efficaci nella misura in cui non sono anonimi, impersonali – l’educazione non è mai “neutrale” –, ma l’esito dell’interazione di istituzioni e agenzie che agiscono in quanto espressione di un sistema sociale vitale, attivo, dinamico capace di rispondere con pertinenza e concretezza alle aspettative educative.

In secondo luogo occorre un grande sforzo di innovazione nel campo delle pratiche didattiche. La personalizzazione è possibile nella misura in cui gli insegnanti sono disponibili a uscire da un orizzonte individualistico e creare situazioni cooperative per attivare una strumentazione didattica flessibile basata su più registri: lezioni frontali, attività laboratoriali, attivazione di gruppi di interesse, gruppi di livello, ecc., impiego delle tecnologie info-telematiche a scopi didattici. La personalizzazione si basa sul principio che l’intervento educativo va reso funzionale alle potenzialità dei diversi allievi perché davvero ciascuno sia in grado di ricevere ciò di cui ha bisogno. Ho qualche dubbio che la scuola di domani sarà una scuola digitalizzata (come suggerisce un bel volume uscito nelle scorse settimane che si può leggere con interesse), ma senza dubbio la scuola non può fare a meno di avvalersi di tutte le opportunità offerte dalla tecnologia nella quale sono già totalmente immersi i nostri ragazzi.    

In terzo luogo occorre contrastare l’idea di un insegnante preparato e configurato idealmente come mero tecnico dell’apprendimento. Certamente ho ben presente le responsabilità didattiche dell’insegnante e non voglio entrare nel merito delle molte analisi e riflessioni che negli ultimi anni sono state compiute, anche con risultati interessanti, sul docente tutor, mentore, facilitatore e altre definizioni ancora. Dico soltanto che all’insegnante dobbiamo chiedere di essere prima di tutto un adulto significativo e autentico, capace non solo di parlare alla ragione, ma anche al cuore, capace di vivere la scuola come una autentica missione/vocazione e non soltanto come un lavoro come tutti gli altri. Se non si supera il tornante di una professionalità giocata tutta sull’empiria didattica si fa poco strada e ci si perde nei sentieri delle tecniche dell’insegnamento e delle tecnologie info-telematiche.

Infine ritengo che sia del tutto fuorviante immaginare la personalizzazione come antitetica al perseguimento dell’equità come se personalizzare l’insegnamento volesse dire favorire soltanto gli allievi più dotati. La personalizzazione si configura come una strategia capace di sostenere le eccellenze e di intervenire nelle situazioni critiche, di lavorare per potenziare chi è già bravo e chi invece fa più fatica nell’apprendimento.

Per concludere direi che la personalizzazione si configura come una grande opportunità educativa perché si realizzi ciò che un grande filofoso contemporaneo, Hans Jonas, ha indicato come il proprium dell’attività educativa: che ciò che non è ancora possa davvero essere nella sua pienezza.

 

     

       

 

 


 [norbot1]Giorgio segnalo che su questo punto ho sentito una splendida conferenza di Marcel Crahay a Ginevra. Credo che Crahay stia preparando qualcosa di molto valido su questo punto.

 
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