La dirigenza scolastica, interpretazioni e proposte - Rosario Drago


 

LA DIRIGENZA SCOLASTICA

nel quadro del declino del sistama scoalstico italiano e della sua gestione

una interpretazione e alcune proposte

Presentazione sintetica

L’analisi delle indecisioni pubbliche (legislative) e di quelle gestionali, dimostrano che il sistema scolastico italiano ha imboccato la via di un lento declino, che, a mio avviso, ha superato la soglia critica oltre la quale può diventare irreversibile. Ovviamente non sono queste poche righe e un rapido – e incompleto – inventario che  possono giustificare questo severo giudizio. Tuttavia, alcune linee di tendenza, la cui descrizione è condivisa da tutta la migliore critica scientifica nazionale e internazionale, non danno adito a dubbi.

Vediamole in questo breve elenco, a cui ho aggiunto qualche considerazione.

-                       la statalizzazione del sistema. Invece di diventare pubblico il sistema si è sempre più statalizzato. La scuola privata (paritaria) in mezzo secolo occupa ormai uno spazio (meno del 5%, esclusa la scuola dell’infanzia) statisticamente irrilevante; le famiglie sono sempre meno libere di scegliere; gli enti locali si mettono in fila per cedere le loro scuole materne comunali; le grandi città (Genova, Firenze, Bologna) chiedono al Ministero l’acquisizione delle loro gloriose scuole civiche e Luca vuol “vendere” il suo prestigioso Conservatorio. Il processo iniziato nel 1911 con la statizzazione della scuola elementare, è proseguito senza sosta fino a d oggi: nel 1999 (l.124) anche i bidelli alle dipendenza degli enti locali sono passati allo Stato. Così, con la  Finanziaria 2007, viene statizzata anche l’educazione degli adulti (coi “Centri territoriali” forniti di organici statali) che è di competenza esclusiva degli enti locali (D.lgs 112/99), ed anche l’alta formazione professionale. Inoltre, se non bastasse, l’istituzione delle classi “primavera” (2-3anni di età) nelle scuole materne accompagna, o prelude all’assorbimento nella sfera del controllo amministrativo statale anche l’ultimo anno degli asili nido (con un modello pedagopgico fortemente “scolastico”). In tal modo, le comunità locali rinunziano a qualsiasi responsabilità relativa all’educazione e alla formazione dei loro cittadini, completamente delegata alle burocrazie centrali. La statalizzazione del sistema è la conseguenza diretta dell’amministrazione centralizzata del personale. Le forze politiche e le burocrazie non intendono rinunciare ad una fonte rinnovabile di consenso come gli organici di un milione e più di dipendenti, di cui il ministro di turno diventa il rappresentante sindacale e il tutore.

-                      la proletarizzazione degli insegnanti. Dopo 30 anni di faticosa e contraddittoria gestazione, la formazione universitaria degli insegnanti (e la conseguente assunzione) si può dire conclusa con un nulla (o poco) di fatto. Come ai primordi della scuola italiana (vedi la Legge Casati del 1859) il sistema del concorso – in via di estinzione -  convive con l’assunzione in ruolo per sanatoria, legittimato da molte leggi più o meno recenti: oggi il 64% degli insegnanti in servizio non ha mai superato una prova selettiva degna di questo norme. Si aggiunga il fatto che gli insegnanti “specializzati” sono meno del 4% dei docenti iscritti nella graduatoria permanente. In sostanza, il sistema di selezione del personale insegnante assomiglia oggi piuttosto a un sistema di collocamento, che a una vera e propria selezione dei migliori. Il crollo della qualità degli insegnanti verificatosi negli anni ’70 e ’80 con le massicce immissione in ruolo “ope legis” non è stato digerito né ha trovato valide alternative. A questo si aggiunga la scomparsa di ogni valutazione del servizio (c’erano le note di qualifica), ogni pur pallida carriera (c’erano i concorsi per merito distinto), ogni gerarchia professionale (c’era un preside).

-                      La perdita della dimensione riflessiva del sistema. La proletarizzazione dell’insegnante si accompagna alle eliminazione di qualsiasi organismo, gruppo, ente, corpo, ecc., al quale affidare la funzione di ricerca, cioè la riflessione sul lavoro didattico degli insegnanti che operano nelle aule (di cui non sappiano nulla), in modo da diffondere le pratiche più efficaci, dare al sistema politico indicazioni e informazioni utili alla decisione strategica. È strato quindi “licenziato” il corpo ispettivo, oggi ridotto a una vecchia larva, l’Università si è definitivamente separata dalla scuola, e con essa anche i professori universitari, stanno per essere chiusi (finanziaria 2007) gli IRRE, concludendo una vita non certo prestigiosa iniziata con i “Centri didattici” di Bottai. Infine, in Italia non si conosce l’attività sistematica di indagine, di analisi e di ricerca in grado di arricchire il dibattito pubblico, come avviene in altri paesi civili, ad esempio con i “Rapporti” su numerosi aspetti rilevanti del funzionamento della scuola. Nessuno conosce veramente come funziona e dove va la nostra scuola. In questi ultimi cinque anni, il Ministero francese ha prodotto almeno 6 rapporti “indipendenti” (con nome e confome degli studiosi che si assumono la responsabilità di quello che scrivono), la Gran Bretagna altrettanti, l’Italia nemmeno uno. Quando si governa un sistema come questo – sordo, cieco, muto - è come navigare a vista. Ogni discorso si legittima per se stesso o con la “tradizione”, o con l’”ideologia”, oppure, più semplicemente, con il “si è fatto sempre così”, cioè con la burocrazia.

-                      L’accentramento burocratico. In dieci anni le direzioni generali del Miur sono passate da sette a trenta, una metastasi amministrativa, che nemmeno il fascismo aveva tentato, nonstante il progetto di Giovanni Gentile di costituire le direzioni generali regionali, che ebbero vita breve e lasciarono la diafana eredità delle Sovrintendenze regionali. Nella stessa linea, l’attuale Ministro ha resuscitati i provveditorati (che già il precedente si era incaricato di rivitalizzare). Il decentramento (verso le scuole e verso gli enti territoriali) quindi non ha fatto un passo avanti. Anche in questo caso vale il principio regolatore di queste scelte: mantenere salfdamente in mano alle burocrazie contrali la gestione amministrativa del personale per garantirsi un consenso poco costoso in termini di resposnabilità. Infatti, nessuno in Italia è in grado di valutare con obiettività e dati alla mano, se le scelte amministrative (tutte concentrate suil personale) hanno effetti negativi o positivi sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Per questo vige il più vieto senso comune: più personale (rosorse umane si dice) = migliori risultati dei ragazzi; più bidelli = scuole più sicure, accoglienti e pulite; più insegnanti di sostegno = migliore integrazione dei disabili; più soldi per gli stipendi = insegnanti più soddisfatti; classi meno nuemrose = ragazzi più intelligenti; più materie di insegnamento (più libri di testo) = più diffusione della cultura, più burocrazia=più integrazione del sistema, e via dicendo. Nessuna di queste affermazione è verà in sé, se non è messa sotto i rioflettori di una indagine accurata, sistematica e obiettiva. Ma questo senso comune ha il grande pregio per il sistema burocratico accentrato della irresponsabilità, per cui ogni aumento di personale anche “sperimentale” (vedi Finanziaria 2007) diventa irreversibile, e dato che le “riforme” non sono soggette a verifica diventano necessaruiamente anche infallibili.

-                      La fine dell’autonomia delle scuole. Non c’è nulla di quello che oggi si fa in una scuola che non potesse essere fatto dieci anni fa, senza l’autonomia. La breve stagione dell’autonomia, iniziata nel 1993 per merito di Ciampi e Cassese (di cui andrebbe riletta la relazione alla conferenza sulla scuola del 1990), si conclude in questi anni con la sua espulsione dalle ipotesi di riforma. L’autonomia delle istituzioni scoalstiche non è più un principio regolatore del sistema. Essa ormai si è ridotta ad una retorica che non ha nessun effetto né sul funzionamento delle scuole (che rimangono – come abbiamo detto – gestite dal centro) né sulle pratiche degli insegnanti, che temono l’autonomia, né sui comportamenti del Sindacato, il cui strumento contrattuale è rimasto perfettamente aderente al modello centralistico, che ha direttamente potenziato e legittimato (come sia possibile predicare l’innovazione continua nelle scuole, con una cultura contrattuale che nega ogni possibile innovazione, questo lo credono sono le anime belle che concepiscono il lavoro degli isnegnanti come un’attività artistica indipende e libera). La prova più evidente di questa fine è che il nostro Ministero non è affatto cambiato. Non è vero che l’autonomia distrugge il sistema, richiede invece un cambiamento qualitativo sia dei soggetti che dei metodi, della cultura e delle competenze degli organismi di direzione centrale, a cominciare dal Ministero. Ciò non è avvenuto nemmeno in piccola parte. Il nostro Ministero rimane quello disegnato all’inizio del secolo scorso (dopo l’affare Nasi): un ministero di dirigenti amministrativi estranei per cultura e per formazione al sistema che sono tenuti a gestire e che, quindi, gestiscono nel solo modo possibile: in modo burocratico. Pedagogisti, psicologi, sociologi, economisti, statistici, ecc. non hanno accesso a questa sancta santorum delle leggi, delle circolari, di questo sistema che produce norme tramite norme. In altre parole, la distanza tra la cultura di un insegnante, i valori di una scuola e quella di coloro che l’amministrano non è mai stata così lontana come in questi ultimi trent’anni.

Questa deriva di omologazione del sistema che lo rende sempre più uniforme, compatto, autoreferenziale, potrebbe essere dimostrata anche con altre interessanti analisi (si vedano i curricoli espliciti e impliciti delle scuole, le pratiche degli insegnanti, i percorsi di istruzione, la soppressione – fino a 16 anni – dell’apprendistato, la lenta agonia della formazione professionale, l’inesistenza di una alternativa credibile ai percorsi universitari, ecc.), ma basta questo per rendere preoccupante tale processo in polemica contraddizione che appare inarrestabile, governato dalle burocrazie centrali e trascinato da una mercato del lavoro del personale scriteriato e irrazionale.

Credo che non ci sia nulla da fare, se non studiare il fenomeno e “produrre” idee che possano essere utili ai futuri governanti, nella speranza che ne nascano

Il profilo materiale del dirigente scolastico e la sua evoluzione

Il riconoscimento formale della dirigenza (DPR 165/01, art.25) ha prodotto alcuni cambiamenti sostanziali nel ruolo e nelle funzioni dei capi di istituto, che vanno interpretate alla luce delle concrete situazioni in cui essi hanno interpretato questo ruolo, in primo luogo l’autonomia organizzativa e didattica delle scuole.

Una riflessione sulla dirigenza delle scuole in regime di autonomia non può limitar­si all'approfondimento del profilo del capo di istituto riscritto in funzione del confe­rimento della qualifica dirigenziale (D.P.R. 165/01 art. 25). Essa deve tentare di pro­cedere oltre sul piano dell'interpretazione di compiti di cui il profilo enuncia l'aspet­to puramente formale, che a sua volta viene sostanziato con atti, decisioni, relazioni, comportamenti, a partire da quelli relativi al più importante compito, precisato in apertura del testo normativo: "Il dirigente scolastico assicura la gestione unitaria dell’istituzione".

Per la verità, nei fatti, questa funzione - come, del resto, le altre descritte nel profilo - è nata prima dell'autonomia: la sua definizione e identificazione, come ben sa chi è stato dentro la scuola, hanno attraversato gli ultimi due decenni in modo via via più visibile (all'interno di quel fenomeno di "criptoautonomia", evidenziato in una ricerca Censis). Vale la pena ricordare in sintesi il senso di un processo che, se ha il suo punto focale nell'avvio dell'autonomia e nel conferimento della qualifica dirigenziale ai capi di istituto, è nato molto tempo prima ed è tuttora in corso.

Tali cambiamenti – in prospettiva storica – possono essere rappresentati nell’ultima delle seguenti tre fasi fondamentali:

Le trasformazioni più evidenti del ruolo "in situazione" dei capi di istituto, negli ulti­mi due decenni, sono costituite da tre fasi che hanno fortemente investito le scuole e lo svolgimento della loro missione di istruzione.

1. La prima fase è stata caratterizzata dall'esigenza di affrontare il grande sviluppo della domanda di istruzione, che è durata fino alla seconda metà degli anni Ottanta, e di dare ad essa una risposta in termini di efficienza, di organizzazione di base adeguata alle esigenze della "quantità".

2. La seconda fase, connessa al bisogno di una riforma strutturale degli ordinamenti e dei corsi di studio, per adeguare le conoscenze degli studenti ai nuovi saperi e all'uso delle nuove tecnologie, e per qualificare l'insegnamento in funzione di un migliore apprendimento degli alunni, ha occupato almeno tutto il decennio suc­cessivo. In questa fase, l'azione direttiva ha puntato prevalentemente sul cambia­mento dei curricoli e delle metodologie didattiche, sia per effetto di nuove dispo­sizioni normative (scuola elementare e media) sia delle sperimentazioni "assistite" (scuola secondaria di II grado).

3. La terza fase, iniziata da quasi due lustri, e tuttora in corso, è centrata sulla riforma dell'autonomia delle scuole ed è connotata da un diffuso sviluppo delle progettualità a livello della singola istituzione scolastica, anche in relazione a nuove importanti esigenze che, per fare solo qualche esempio, vanno dall'inserimento di un numero sempre maggiore di bambini e ragazzi di origine straniera, ad un rapporto più intenso con il territorio per caratterizzare l'offerta di formazione, al con­trasto della dispersione e dell'abbandono, alla gestione delle iniziative di alternan­za scuola-lavoro, all'avvio e consolidamento delle iniziative di formazione continua per gli adulti. Tutto quanto, insomma, dovrebbe essere scritto nel Piano dell'of­ferta formativa.

Di fronte a queste trasformazioni, sono via via mutate anche le funzioni e il ruolo del capo di istituto come, del resto, dei docenti.

L'assunzione del ruolo dirigenziale, rea­lizzato con l'avvio formale dell'autonomia delle scuole è stato dunque l'aspetto più visibìle di un processo già da tempo in atto nel quale le funzioni reali sono state rifondate su nuove basi giuridiche, culturali e professionali.

L'elemento più visibile del cambiamento di ruolo del capo di istituto consiste essen­zialmente. nell'incremento delle responsabilità, non solo di gestione dell'istituzione scolastica, ma soprattutto di governo dell'insieme di strategie e di azioni che definiscono l'offerta di formazione, la sua organizzazione in rapporto ai bisogni molteplici, diversi e comples­si degli utenti delle scuole, anche rispetto al contesto sociale ed economico in cui le scuole stesse operano.

Mentre un tempo la sua azione poteva legittimamente limitarsi all'applicazione delle disposizioni impartite dall'autorità gerarchica, nel rispetto delle compatibilità con l'ambiente ma con margini abbastanza modesti di discrezionalità e di iniziativa, ora, al contrario,

In sostanza, le funzioni fondamentali del dirigente scolastico assumono il carattere di una forte imprenditorialità su molteplici versanti. In particolare su quelli che incidono più profondamente nella missione della scuola rispetto ai compiti di istruzione e di educazione degli allievi, in una società sempre più complessa, disorientata di fronte ai grandi proble­mi di oggi.

Le funzioni fondamentali del profilo

Nel guidare la scuola per lo svolgimento di tali compiti, l'iniziativa del dirigente è tanto più incisiva, per un buono sviluppo della scuola, quanto più è condivisa nelle decisioni e nei comportamenti dei singoli, fatta oggetto, quindi, di partecipazione effettiva da parte delle altre componenti, soprattutto dai docenti.

Dirigere le scuole, infatti, è oggi funzione assai complessa perché implica un governo forte del sistema di interazioni interne, alla base di molte decisioni che devono essere assunte colle­gialmente. Inoltre, l'incremento dei compiti e delle responsabilità delle scuole con­seguente all'autonomia ha comportato anche delle modificazioni notevoli dell'orga­nizzazione, con un aumento sensibile delle funzioni intermedie svolte dai docenti, con cui occorre una condivisione della leadership da parte del capo di istituto. Condividere nel senso etimologico di "dividere con altri", "far parte ad altri".

La prospettiva ed i campi di azione in cui maggiormente si sta concretizzando la direzione delle scuole in regime autonomistico, alla luce dell'esperienza degli anni di spe­rimentazione nei fatti, prima, e di applicazione dell'autonomia, poi, vanno fonda­mentalmente ricondotte ai seguenti campi.

1.    1 La promozione delle strategie formative e del loro rinnovamento relativamente ai curricoli ed alle attività ad essi collaterali, non solo nella parte cosiddetta locale (ora attestata sul 15% del monte ore annuale) ma soprattutto in quella comune, su base nazionale, che non è più definita dall'alto in termini di contenuti da insegnare, ma di obiettivi formativi da raggiungere: in tal senso occorre, infatti, realizzare un lavoro complesso di progettazione e programmazione delle attività di insegnamento/apprendimento. In tale ambito si collocano la lotta contro la dispersione, l'orientamento, la promozione delle eccellenze, etc.

2.    2. La guida dell'ambiente formativo, inteso come "luogo" - non solo spazio fisico, ma ambito culturale, contesto - al quale vanno riferiti i valori educativi comuni che danno senso all'attività professionale dei docenti e degli altri operatori. In questa dimensione dell'attività di direzione trovano spazio le iniziative e le strategie volte all'arricchimento, alla formazione e allo sviluppo professionale dei docenti e del restante personale, all'informazione diffusa, alla gestione del clima di scuola e di classe, delle modalità di interazione e collaborazione fra gli operatori, di riconoscimento reciproco delle diverse responsabilità e dei molteplici ruoli rivestiti. L'ambiente formativo è il vero motore della progettualità scolastica anche perché esso comprende la ricerca didattico-disciplinare come momento fondante della i, progettazione e gestione dei curricoli; esso include, inoltre, le riflessioni per lo svi­luppo della scuola finalizzato alla realizzazione di un servizio alla comunità locale sempre più adeguato.

3.    Questo è anche il "luogo" dove è più difficile l'azione di guida del capo di istitu­to, il quale, in tale ambito, non potendo imporre nulla è però in qualche modo il promotore di tutto. Autorevolezza, determinazione, decisione, capacità di convin­cimento sono le doti necessarie; qui si coniugano tre metacompetenze indispensabili per questo mestiere: 1) una buona cultura professionale; 2) visione; 3) senso di una forte leadership.

4.    La guida dell'apparato organizzativo della scuola, che con l'autonomia ha visto anche un notevole sviluppo delle funzioni intermedie, a vari livelli di responsabilità, sia per la gestione delle iniziative stabilite nel Piano dell'offerta formativa, sia per il coordinamento dei gruppi di lavoro (dipartimenti, consigli di classe, commissioni di lavoro), sia, ancora, nei rapporti con l'esterno (mondo del lavoro, comunità locali, associazioni, etc.). L'attività di tali funzioni va sostenuta, orientata, razionalizzata, monitorata, rimodellata rispetto ad esigenze via via insorgenti, poiché diver­samente esse inaridiscono perdendo utilità e valore. Appartengono a questo ambito di attività anche  le funzioni amministrative in materia di gestione del programma annuale e delle risorse finanziarie. Inoltre, in esso si collocano anche funzioni assai importanti sul piano formale proprie del dirigente scolastico in materia di sicurezza, privacy, ed altre; funzioni che stanno diventando sempre più assorbenti ed ingombranti, con grave danno per altre funzioni, meno cogenti sul piano formale eppure più vitali per la missione della scuola.

5.    4. La promozione di processi autovalutativi, correlati alla valutazione di sistema e reinterpretati ai fini della riprogettazione delle strategie e dei curricoli formativi. Non v'è dubbio che sia questo il campo di azione, allo stato attuale, più indefinito e incerto per i ritardi culturali ed operativi che caratterizzano il sistema scolastico '    italiano su questo specifico versante.

Il campo di riferimento dell'azione del dirigente sommariamente presentato occupa dunque l'intero ambito del Piano dell'offerta formativa, senza neppure esaurirsi in esso. Infatti, l'elaborazione del POF ha (o dovrebbe avere) un carattere fondativi dell'organizzazione scolastica in regime autonomistico. Nel quadro dei suoi obiettivi, seppur con diversi livelli di responsabilità e con ruoli differenti, si muove l'intera comunità di operatori: dirigente, docenti, personale amministrativo, tecnico e ausi­liario. In un certo senso, dunque, la centralità del POF, l'insieme delle strategie e delle azioni connesse con la sua attuazione rendono meno "gerarchico" il ruolo del capo di istituto come dirigente di quanto lo fosse prima come direttivo, cioè come funzionario interprete ed esecutore della volontà dell'amministrazione scolastica. Meno gerarchico eppure notevolmente più importante rispetto all'influenza e alla determi­nazione delle strategie della scuola, del comportamento professionale degli operatori, dell'azione della scuola in ambito territoriale. $u queste basi si fonda una prospettiva chiara di ricerca sulla managerialità scolasti­ca, al di là delle pur indispensabili, ma forzatamente generiche, indicazioni di profi­lo disegnato sul piano normativo, sia per il dirigente sia per le altre figure.

Dirigere come e a quali condizioni?

Ci si chiederà quanti dirigenti scolastici sono preparati allo svolgimento di questi compiti e li svolgono effettivamente. La domanda non solo non è oziosa ma è anche pienamente legittima. Tuttavia essa va fatta senza alcuna retrointenzione maliziosa e insieme ad altre due domande che le sono strettamente coordinate; diversamente il ragionamento sarebbe incompleto.

Bisogna ora chiedersi se il sistema si è mosso coerentemente per creare le condizioni per il pieno svolgimento di tali funzioni.

In sostanza:

Ø    quali strumenti ha a disposizione il dirigente scolastico, secondo la normativa vigente, perché egli possa svolgere al meglio i compiti che sono stati sommariamente descritti?

Ø    quale politica di indirizzo, di supporto e di formazione in questa direzione svolge il sovra­sistema nei confronti dei dirigenti scolastici?

Il tema degli strumenti di direzione delle scuole, com'è noto, rappresenta in Italia una questione di primario rilievo nel dibattito sul ruolo del dirigente scolastico in regime di autonomia. La norma ne evoca l'esistenza senza enunciarne espressamente i contenuti (art. 25, D. Lgs 165/O1) affermando, assai timidamente, che "nel rispet­to delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane", quindi nel cuore della vita della scuola. Quali poteri, viene da chiedersi; posto che la norma non dice altro? A coloro che, come chi scrive, hanno esercitato il mestiere per lungo tempo seguendo le evoluzioni del ruolo (o anche, nel piccolo, cer­cando di anticiparle) viene da rispondere in un modo solo: tutti e nessuno. Tutti, nel senso che per un dirigente con una forte leadership, buona visione delle cose, grande capacità di coinvolgimento e di influenzamento, cultura professionale aggiornata, senso della decisione, il "potere di direzione, coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane", richiamato dalla norma, consegue in modo apparentemente naturale, anche se in realtà è il frutto di un investimento faticoso di autoformazione nell'esercizio del mestiere.

A sostegno di queste funzioni, in concreto non sembrano esserci nessuno strumento e nessun potere. O meglio, gli strumenti sono del tutto "immateriali" e del tutto inscritti solo nella personalità del dirigente. A partire da quel potere di iniziativa e di proposta che è diven­tato lo strumento principe, nel senso in cui s'è detto, della funzione.

E anche vero che, in genere, il contesto scolastico rende possibile l'esplicazione di questi poteri, anzi in qualche modo la esige, ne pretende l'esistenza come un bisogno vitale per l'identità e per la stessa sopravvivenza dell'istituzione.

Non c'è scuola con molti docenti bravi o bravissimi, che credono effettivamente nella missione unitaria del loro lavoro, in cui essi abbiano la pretesa di autogovernarsi, o che vorrebbero un dirigente debole piuttosto che un dirigente forte. Non c'è scuola in cui gli organi collegiali, anche quelli che funzionano nel modo migliore, possano o vogliano supplire alla mancanza di un dirigente adeguato. Ma la verità/paradosso è questa: quelle scuole, in genere, hanno già un dirigente forte e preparato!

Ciò significa che nella scuola c'è un rapporto di causalità, non deterministica ma altamente probabilistica, fra un dirigente capace ed autorevole e docenti preparati e coin­volti nella sua missione. Ma se è così, non sarebbe il caso di immaginare l'attribuzione ai dirigenti di qualche strumento concreto perché il potere di iniziativa e di proposta, di orientamento e di persuasione, di guida e di supporto possa sostanziarsi in una linea di direzione meno precaria ed instabile di quella oggi praticabile, dei cui effetti i dirigenti rispondano e sulla quale siano valutati? Quali strumenti? Ne cito tre che mi sembrano essenziali:

si potrebbero fare, a questo proposito, alcuni esempi:

1)    un potere di scelta, anche non assoluto ma diretto, delle figure professionali che operano nell'orizzonte della gestione del POF. Tale potere potrebbe consentire di uscire dall'attuale pasticcio di latente contrapposizione dei poteri fra dirigente e collegio dei docenti, che mentre confina i collaboratori del dirigente in una sorta di "riserva indiana" non dà alle altre figure intermedie (funzioni strumen­tali) la visibilità e l'accreditamento professionale che invece meriterebbero.

2)    un potere di gestione autonoma dell'organico funzionale del personale, indispensabile per predisporre l'offerta di formazione in condizioni di autonomia didattica effet­tiva e non nominale, come in buona parte è ora, e per rendere meno burocratica e più finalizzata al servizio l'attività professionale dei docenti.

3)    un potere di valutazione, anche condiviso con altri soggetti, delle prestazioni professionali degli operatori. La valutazione del dirigente permetterebbe di dare agli operatori, in particolare ai docenti, quei segnali di senso rispetto al loro lavoro che sono alla base di qualunque ipotesi di miglioramento qualitativo per un lavoro ad un tempo così impegnativo e privo di "ritorni" diretti quale è quello dei docenti. È una pratica che applicata agli studenti prende nome di "valutazione formativa".

Ora, per venire alla seconda domanda (quale politica di indirizzo e supporto svolge il sovrasistema nei confronti dei dirigenti scolastici), il problema è questo: un'impo­stazione siffatta, che mentre assegna al dirigente responsabilità elevate gli riconosce solo un potere alquanto astratto, anche se non puramente virtuale, di proposta, di ini­ziativa, di orientamento alla decisione rispetto a moltissime materie (forse, quasi tutte), ma priva il dirigente stesso di strumenti concreti di decisione e di gestione, esigerebbe anche una politica molto esplicita di valorizzazione delle risorse professionali, di accreditamento, di coinvolgimento nei riguardi degli obiettivi più generali di sistema perché le persone possano crescere.

Possiamo tranquillamente affermare che le cose non sono propriamente orientate in questa direzione. Anzi, è difficile capire che cosa l'amministrazione scolastica da qualche anno a questa parte chieda ai dirigenti scolastici; l'impressione che si percepisce, dopo il grande investimento di risorse anche finanziarie effettuato per i corsi di formazione per la qualifica dirigenziale, è che, a seconda delle materie, prevalga la politica dell'abbandono o della delega a svolgere compiti non graditi, in nome dell'autonomia e, insieme, del richiamo coatto alle antiche funzioni di dipendenza funzionariale attraverso infiniti artifici di controllo formale e procedurale. Dirò di più:

L'impressione è che all'amministrazione, nel suo complesso di apparato che si autoriproduce per compiti che molto spesso non sono di servizio ma di semplice passaggio delle pratiche, l'esistenza di dirigenti scolastici molto autonomi e molto preparati, o dotati di maggiori poteri (soprattutto in materia di gestione del personale), in fondo dia assai fastidio, perché essi ne diminuiscono di fatto il ruolo.

È difficile astenersi dal fare una semplice osservazione: l'attribuzione alle scuole dell'istruttoria delle pratiche di pensione del personale, l'attribuzione al dirigente delle responsabilità proprie del datore di lavoro ih materia di sicurezza e la contestuale negazione di strumenti indispensabili di governo non solo nella scelta ma anche nella gestione del personale docente e non, sono il segno della clamorosa confusione che sì è volutamente generata fra decentramento e autonomia per circoscrivere i confini. di quest’ultima in un territorio asettico, non più strategico per il sistema di istruzione, al fine di poter esercitare le stesse funzioni di prima in termini di controllo gerarchico. Un'intera enciclopedia ormai potrebbe essere scritta sul tema dell'autonomia tradita!

Analogamente, anche la dirigenza scolastica, dall'amministrazione, è stata elevata ad un rango inferiore. Priva, di per sé, di uno specifico contenuto specialistico di setto­re (che è proprio di tutte le dirigenze tecniche), nonché di quella esclusiva compo­nente della competenza amministrativa - che nella cultura diffusa della nostra ammi­nistrazione costituisce per antonomasia "il" sapere proprio ed unico, quasi sacrale, per l'idoneità alla funzione dirigenziale, marginalizzando il valore di altri saperí e di altre competenze - la dirigenza scolastica, nell'opinione corrente all'interno dell'ammini­strazione, continua a essere considerata come figlia di un dio minore, ad onta di quel­la specificità che la identifica e che è un insieme ad ampio spettro di saperi educati­vi, cultura organizzativa, competenze relazionali e di leadership, abilità strategiche, capacità di coordinamento di situazioni complesse e fortemente diversificate, gestio­ne di squilibri sempre insorgenti. Una dirigenza che ha la sua caratteristica propria . in un ossimoro: la "specializzazione del generale".

Probabilmente.anche i dirigenti scolastici si sono resi responsabili di questa forzata diminutio del loro ruolo dirigenziale per la modesta forza di accreditamento di sé come categoria che è capace di interpretare originalmenre l'esigenza di una cultura mana­geriale nella scuola e di tradurla nel perseguimento degli obiettivi dell'istituzione. In questo senso, sarebbe stato più opportuno per la categoria, ad esempio, accettate da subito o addirittura forzare ì tempi dì messa in onda della valutazione dopo la stipu­la del primo contratto della dirigenza scolastica, anziché limitarsi a guardare la sua applicazione confinata nel limbo attuale sperimentazione abbastanza discutibile per come è costruita. Accettare la valutazione, per sottrarsi al rischio, sempre incombente in particolare per chi svolge funzioni apicali, dell'autoreferenzialità, ponendo due sole condizioni, assolutamente dirimenti e del tutto ragionevoli: che gli interlocutori (i valutatori di prima istanza) siano all'altezza del compito e che le regole del gioco siano chiare evitando le ridondanze e le inutili produzioni cartacee. La sperimentazione finora attuata ha invece dimostrato un notevole vuoto di competenza rispetto alla prima condizione ed una scarsa chiarezza di idee rispetto alla seconda.

Qualche indicazione di prospettiva

Se così è, e se questa è la direzione verso cui dovrebbe procedere una dirigenza scola­stica ampiamente all'altezza dei compiti, quali possono essere-gli strumenti utili per innalzare la soglia delle competenze, la capacità di leadership, -1a capacità di indurre azioni e iniziative che qualificano il servizio, da parte di un numero sempre maggio­re di capi di istituto? Ne indico tre, al di là di quanto già osservato sulla valutazio­ne, presentandoli per sommi capi:

1. Un reclutamento ed una formazione di base coerenti con queste premesse. La poli­tica di reclutamento dei dirigenti scolastici è stata negli ultimi quindici anni a dir poco dissennata. Ora sembra che si voglia porre riparo, tra l'altro mettendo fine all'istituto degli incarichi che è stato portatore di precariato, costantemente da sanare ex post. Non sarà inutile ricordare che il turn over nei prossimi anni è destinato a crescere per un fenomeno di invecchiamento costante della categoria, la cui età media, rispetto ai dati del 2002, sarebbe oggi di 58 anni,

2. Una formazione in servizio dei dirigenti che valorizzi competenze professionali interne al sistema e favorisca sinergie con l'esterno portatrici di potenzialità di svi­luppo: Ricordo che all'inizio degli anni `90 era stata avviata dal Ministero, su pro­posta dell'ANP e d'intesa con Confindustria ed altri soggetti, una iniziativa di "formazione fra pari", guidata attraverso strumenti multimediali, che ha riscosso in tutta Italia un grande successo; altre iniziative analoghe messe Ari cantiere, sem­pre negli anni `90, dalle stesse direzioni generali del Ministero, dalle università o da agenzie di formazione con il coinvolgimento diretto di dirigenti scolastici esperti e formatori, non sono state meno importanti. Quello che è seguito, in que­sti ultimi anni, è stata cosa di gran lunga più modesta e assai poco incisiva.

Favorire la creazione di reti di collaborazione su specifici progetti, in cui sia anche possibile attuare una sorta di "competizione virtuosa" fra i partecipanti. In genere le esperienze avviate in questa direzione, spesso su iniziativa delle unioni industriali locali, delle singole scuole, degli enti locali, delle Camere di commercio hanno dato esiti interessatiti oltre che per il "prodotto", anche per i benefici diretti del processo, tra cui l'apprendimento a fare cose nuove. E l'apprendimento migliore che si realizza in un lungo percorso di lavoro come dirigente scolasti quello che avviene tramite i colleghi più bravi.

Il tutto insieme con la proposizione di modelli, riferimenti accessibili, luoghi di consulenza e di confronto. Siamo sicuri che la soppressione, nell'autunno del 2001, costituendi Centri intermedi di servizio, che avrebbero ereditato l'esperienza di v strutture di supporto all'autonomia sorte nel periodo precedente, e il contesti mantenimento dei provveditorati agli studi, ancorché figurativamente depotenzia ribattezzati in CSA, sia stata una scelta intelligente? Credo che sussistano m dubbi al riguardo.

Ciò che più conta ora, dunque, sarebbe di avviare una politica che indichi una li stabile, chiara, propositiva di indirizzo da parte del Ministero e delle direzioni regionali, linea che, tra l'altro, essi avrebbero da perseguire proprio rispetto a compi quelli di indirizzo generale -, che per quanto si legge nelle disposizioni di riforma della pubblica amministrazione sono stati identificati, per essi stessi, come la funzione principe.

Proposte operative

Il vero problema della scuola italiana è di ricostruire all’interno di una struttura e di una organizzazione formalmente autonoma l’altra faccia di tale importante attributo, cioè la responsabilità. Essa non può essere affidata né ad organismi collegiali né alla disponibilità “morale” degli attori della scuola. La responsabilità deve essere personale. La fonte di tale responsabilità è il dirigente che deve farsene carico assieme alla rivendicazione di adeguati poteri di decisione.

La rivendicazione da parte del dirigente di potere decisionale in un contesto come la scuola, segnato da ampie zone di “libertà” professionale, che non vanno confuse con l’indipendenza, deve superare formidabili ostacoli di natura culturale, che fanno parte del retaggio storico di tutte le organizzazioni burocratiche, in primis quelle statali. Eppure senza questa “rivoluzione” l’autonomia della scuole risulta vuota e, alla fine , alla scuola viene a mancare proprio lo strumento educativo più efficace, cioè: rispondere a qualcuno dei propri atti.

Il primo passo di questa “rivoluzione” è il cambiamento radicale del sistema di reclutamento, da cui dipende la continuità o la discontinuità tra la cultura dell’adempimeno e quella del progetto, della leadership, della condivisione e della valutazione del proprio operato.

Tutte le altre propsote operative trovano senso se già al momento del reclutamento il futuro dirigente ha la percezione precisa del “rischio” che l’eserciziod ella professione dirigenziale comporta.

Ø    Il reclutamento va rivisto dalle fondamenta. Nella fretta di attribuire la “dirigenza” formale ai presidi e ai direttori didattici, non si è avuto il tempo di riflettere sul profilo professione e sugli strumenti che erano necessari per selezionare i dirigenti di una scuola autonoma. L’attuale procedura selettiva è il frutto di una trasposizione meccanica delle procedure (anche di contenuti) del dirigente di un qualsiasi ufficio amministrativo. Se non bastasse, queste procedure convivono con la più tradizionale pratica dell’ope legis, cioè dell’immissione in ruolo – con concorsi “riservati” - degli incaricati di presidenza; insegnanti che, senza alcun vaglio che non sia l’anzianità di servizio, assumono funzioni dirigenziali per un certo periodo, anche un solo anno scolastico.

Il reclutamento deve avere le seguenti caratteristiche:

a)    la fase concorsuale deve essere preceduta dall’acquisizione di un diploma di master in management educativo, presso università specializzate e accreditate. Il programma del master deve essere ispirato a uno standard nazioanle. La fase concorsuale vera e propria deve essere centrata sull’esercizio prolungato per almeno due anni scolastici della funzione di vice-dirigente scolastico (praticantato) sostenuto da un tutore o mentore, e concludersi con un esame-colloquio, in cui l’aspirante discute l’attività svolta. Alla commissione partecipa anche il tutore del praticantato e si avvale, per il giudizio finale, delle valutazione dei diversi attori della scuola, in cui l’aspirante ha svolto la sua funzione. Il superamento degli esami dà accesso all’albo degli idonei alla funzione dirigenziale ovvero di vice.

b)    le scuole – i consigli di istituto – debbono avere un ruolo nell’assunzione del dirigente della scuola, attraverso l’istituto della “chiamata” nominativa dall’albo degli idonei, oppure attraverso il “gradimento” del nuovo arrivato, che dovrebbe essere sottoposto ad un “esame” del suo curricolo (ovvero del portfolio), del suo programma di gestione, delle motivazioni che lo spingono ad assumere l’incarico;

c)    l’incarico assunto dai dirigenti scolastici deve essere temporaneo (ad esempio, quinquennale) e rinnovato una sola volta. Una volta conclusa la sua “missione” nella scuola, il dirigente deve esse assegnato o “chiamato” in altra scuola.

d)    I consigli di istituto debbono avere la parola per quanto riguarda la qualità della direzione della scuola, e partecipare quindi alla valutazione del proprio dirigente.

Ø    Infine, il presupposto di una vera selezione è la elaborazione di accurati Standard della funzione direzionale della scuola (compresi quelli relative alle figure di collaborazione ovvero “di sistema”). Gli standard, opportunamente aggiornati sulla base di una ricerca sul campo e di una osservazione sistematica delle funzioni effettivamente svolte dai dirigenti delle scuole migliori, possono funzionare anche come guida all’auto aggiornamento dei dirigenti e ispirare i piani di formazione sia iniziale che in servizio degli stessi.

Ø    un profilo di carriera, collegata alla definizione della carriera degli insegnanti, dando la possibilità ai dirigenti di progettare il loro sviluppo professionale – per merito – attraverso la mobilità professionale (funzioni ispettive, di consulenza, di ricerca, di formazione, ecc.) e la possibilità di fare esperienze – anche temporanee – in altre amministrazioni o enti pubblici e privati.

Ø    vanno estesi i poteri del dirigente. In stretta connessione con l’auspicata definizione dello stato giuridico e della carriera degli insegnanti, il dirigente di una scuola autonoma deve avere poteri chiari, ancorché condivisi, in merito ai seguenti settori fondamentali:

-      la valutazione del personale, sia docente che amministrativo ed ausiliario. Il potere di valutazione potrebbe essere condiviso con alcuni docenti, ma è un passaggio necessario per ricostruire la dimensione della responsabilità all’interno dell’istituto, oltre ad essere il presupposto per rendere credibile la valutazione dello dirigente stesso;

-      la definizione e l’attribuzione degli incarichi al personale per il raggiungimento degli obiettivi del piano dell’offerta formativa. Anche in questo caso va superato il modello “autogestionario” ed assemblearistico eredità degli anni ’70, e va introdotto un modello più coerente con l’autonomia e la responsabilità della scuola;

-      il reclutamento del personale. Il dirigente scolastico deve avere un ruolo – anche se non esclusivo – nel reclutamento sia del personale immesso in ruolo che dei supplenti, attraverso forme di “gradimento” e di “conferma” motivati, che potrebbero essere sottoposte al vaglio del Consiglio di istituto;

-      la disciplina del personale deve essere attribuita in massima parte alla competenza del dirigente, secondo il modello privatistico, e fatta salva la garanzia della conciliazione obbligatoria e del ricorso al giudice del lavoro per dirimere gli eventuali conflitti. La gestione della scuola non può prescindere dal rispetto rigoroso delle regole dell’esercizio delle funzioni che vi si svolgono, le stesse regole il cui rispetto si pretende dagli allievi.

Solo in tal modo si potrà trovare coerenza tra l’autonomia dell’istituto e l’ambito di responsabilità del dirigente “per i risultati” come afferma la legge.

Ø    Una formazione continua e sistematica. I dirigenti, dopo il loro ingresso in ruolo, trovano quasi il vuoto. Proprio per effetto di una interpretazione dell’autonomia come “abbandono” (il messaggio ai nuovi dirigenti è sempre più spesso questo: “adesso dovete arrangiarvi”), è urgente che si rinunci a un modello di aggiornamento come trasmissione passiva delle “novità” legislative o amministrative che vengono dall’alto, ma si affronti il problema con un respiro e una sistematicità adeguata alle sfide del cambiamento, con attenzione a tre momenti strategici per lo sviluppo professionale dei dirigenti: a) l’ingresso nella funzione, b) l’esercizio della stessa e, infine, c) il passaggio alla pensione. Quest’ultimo non dovrebbe essere così brusco come accade oggi: troppe competenze ed esperienze preziosissime per i dirigenti più giovani vengono disperse in una visione della carriera tipicamente impiegatizia. Vanno quindi cerate sedi e occasioni di formazione continua strettamente legate alle condizioni e ai problemi (studio di casi, soluzione di problemi, diffusione di pratiche, ecc.) che nascono nell’esercizio della funzione, con l’utilizzazione di tutor, presidi in via di pensionamento in un continuo confronto tra pari.

Ø    Infine, in un contesto organizzativo e culturale in continua evoluzione, è indispensabile che l’amministrazione impegni consistenti risorse nella ricerca sulla organizzazione scolastica e sul funzionamento del sistema, non solo per sostenere le decisioni pubbliche e gli adeguamenti normativi, ma soprattutto per fornire continui stimoli alla riflessione e all’iniziativa dei dirigenti.

 


 

 

Innovazione gestionale, amministrativa e organizzativa

Fonti principali

note

1.  

Aggiornamento del personale docente

CCNL 1999

Definitivamente uscito dagli “obblighi” o doveri degli insegnanti con il contratto collettivo del 1999.

L’aggiornamento è diventata sostanzialmente una scelta del tutto personale e volontaria degli insegnanti. D’altra parte, l’amministrazione – per l’aggiornamento dei suoi dipendenti - spende dieci volte meno del ministero dell’interno (vedi 3Ellle, Q. 4). Oggi l’aggiornamento è diventato uno strumento di pura “propaganda” delle riforme di turno non una dimensione “normale” della crescita professionale dei docenti.

2.  

Autonomia finanziaria delle scuole

Mai prevista dalla legge (art.21, l:59/97)

Le scuole oggi controllano meno dell’1% dell’intera spesa dell’istruzione. E questo 1% è in parte vincolato da rigidi  criteri nazionali. Anche quando la Finanziaria 2007, trasferisce ingenti risorse finanziarie alle scuole (e fa bene) ben si guarda da liberarle dalle maglie strettissime dei criteri di spesa, per cui le risorse cambiano sede (dal Miur alla scuola) ma non modalità di gestione: e la spesa aumenterà ancora.

3.  

Decentramento “politico” (enti territoriali)

D.lg. 112/98 e Cost. art.118. D.lg. 226/05, art.28, comma 4.

Tentativo di Bassanini fallito e sepolto dall’attuale conferenza Stato-Regioni. Si era arrivati a una formulazione avanzata con l’approvazione dell’articolo 28 (comma 4) del D.lgs 226/05, che trasferiva tutte le risorse finanziarie e di personale alle Regioni e agli enti territoriali. Il testo dell’articolo,  scritto sotto dettatura dalla Moratti, è poi stato respinto dalle stesse regioni che lo avevano imposto. Fioroni non ha intenzione di riprenderlo e si avvia a correggere questa parte del D.lg. 226/05.

4.  

Decentramento amministrativo

D.lg. 112/98, art.icoli 135-147

Il decentramento amministrativo progettato da Bassanini (D.lg. 112/98, art.139, comma 2, lett. a)) non ha avuto seguito nel senso che sono state trasferite (a comuni, province e regioni) ampie competenze, ma non le risorse, soprattutto per quanto si riferisce al personale. Quindi  la funzione strategica (la “politica scolastica”) è delle Regioni ma resta separata da quella amministrativa, che è saldamente in mano agli uffici centrali e periferici del Miur (e tutti sanno che “decide chi paga”). Nella confusione generale, nessuno fa scelte strategiche e tutti si occupano di amministrare il personale, il Ministero per vocazione, gli enti locali per impotenza.

5.  

Riforma del Miur

L.59/97; D.lgs 300/99; DPR 347/00; DPR 477/99; DPR 319/03.

I decreti (DPR) sulla riforma del Miur non si contano dal 1999 al 2004.

Tutti comunque si muovono in senso inverso alla legge istitutiva (l.59/97) e a quella che doveva essere una struttura moderna di gestione di un sistema basato sulle autonomie locali e sull’autonomia delle scuole. Il Ministero è oggi più burocratico, più estesa, più potente. Basti pensare che dalla 7 direzioni generali del 1998 è passato alle attuali 30. Inoltre la prevista soppressione dei provveditorati (trasformati in CSA) è stata interrotta. Oggi possiamo dire che i provveditorati sono stati completamente restaurati con Fioroni, con i Centri amministrativi provinciali.

6.  

Bilancio del Miur (efficienza dell’uso delle risorse finanziarie)

 

Nonostante le numerose promesse di questi ultimi anni, il bilancio ha raggiunto nel 2006 (consuntivo stimato) il rapporto più alto (97%) tra spese per il personale e altre spese di tutto il dopoguerra. Ciò significa che tutte le funzioni non amministrative (ricerca, formazione, investimenti, innovazione, ecc.) sono stati gradualmente estinte.

7.  

Esternalizzazione dei servizi di pulizia e di vigilanza

L 449/97, art.40

Norma del 1997, applicata solo in parte, ma conclusasi con la “statalizzazione” dei bidelli. Oggi di estrenalizzare i servizi non parla più nessuno.

8.  

Controllo: estinzione della funzione ispettiva.

 

L’organico degli ispettori, in 15 anni, è passato da 1.000 unità a poco più di 200, tutti in via di estinzione (pensionamento). Sembra che la scuola non abbia  bisogno né di consulenti né di supporti tecnici. Il rapporto tra le burocrazie centrali (amministrazione, sindacati, politici) si è fatto più ravvicinato e non è più mediato da un corpo professionale forte e competente. Anche per questo motivo gli insegnanti – come professionisti – sono diventati più dipendenti di prima.

9.  

Ricerca: fine degli istituti di ricerca

Finanziaria 2007

La vicenda (troppo chiamarla “riforma”) si chiude con la soppressione sostanziale degli IRRE (prima IRRSAE), vicenda iniziata con i centri didattici di Bottai (1940). La scuola e gli insegnanti restano soli davanti ai loro problemi quotidiani. Ma la ricerca non è considerata come una dimensione sostanziale della professionalizzazione del mestiere. L’università (e il suo ministero)– forse definitivamente – si separa dalla scuola come fosse un oggetto estraneo. Così la scuola resta senza ricerca e l’Università senza didattica.

10.  

Obbligo o “diritto dovere”

L.53/03, Finanziaria 2007

Siamo fermi alle discussioni ideologiche degli anni ’70. Berliguer impone l’obbligo fino a 15 anni, la Moratti lo trasforma in “diritto dovere” fino a 18, Fioroni torna (con la finanziaria 2007) all’obbligo ma lo chiama “di istruzione”. Oggi il sistema scolastico vive quindi con tre “obblighi”: a) obbligo scolastico fino alla terza media, b) obbligo all’istruzione fino ai 16 anni; c) diritto dovere dai 16 ai 18 anni. Il percorso di istruzione, soprattutto i ragazzi e per le famiglie meno abbienti e culturalmente deprivate, diventa una giungla di norme e di “offerte”. Quanto di peggio si poteva fare per recuperare alla scolarità un pezzo consistente della gioventù, compresa quella degli immigrati. A mio parere, uno degli episodi peggiori della politica scolastica da mezzo secolo in qua.

11.  

Organi collegiali di istituto

Numerose proposte di legge dal 1996 ad oggi

Sempre arenatesi in sede di commissione o di comitato ristretto. Nessuno vuole scogliere il nodo del collegio dei docenti, come organo di autogestione delle scuole (il cosiddetto “modello jugoslavo”)

12.  

Organi collegiali territoriali

DPR, 190/01, D.lgs 233/99; L.137/02

Riforma tentata da Berlinguer, poi dalla Moratti; quest’ultima respinta dalla conferenza unificata Stato regioni e lasciata nel dimenticatoio. Tanto… non cambia niente.

13.  

Organo collegiale nazionale: riforma del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione

Art.23 D.lgs 297/94, D.lgs 233/99; L.137/02

Idem come sopra. L’attuale CNPI (una speciale di camera delle corporazioni) vive in perenne “proprogatio” da parecchi anni.

14.  

Reclutamento dei docenti

Legge 124/99 e successive modificazioni e integrazioni

La 124 doveva essere l’ultima legge di “suoperamento del precariato” (così vengono titolate le leggi sul reclutamento degli insegnanti, ed invece è stata seguita da altre 4 leggi di modifica e integrazione. E senza risolvere né il problema del precariato né quello della selezione dei migliori insegnanti. Pertanto oggi convivono senza nessun ordine tre modi “di pari dignità” di assumere insegnanti. A) per concorso; B) per anzianità e conseguente corso abilitante di risarcimento”; C) per formazione universitaria (SSIS) finalizzata all’abilitazione. Tutti gli aspiranti vengono versati nella graduatoria, dove attendono il ruolo: oggi hanno mediamente 39 anni di età.

15.  

Formazione iniziale degli insegnanti

D.lg.  227/05 e finanziaria 2007

Dopo dieci anni di attesa e la sua istituzionalizzazione nel 2001, sono partite le scuole universitarie di formazione iniziale dei docenti (elementare e secondaria). Il sistema, riformato dalla Moratti, oggi vivacchia senza valutazione esterna di efficienza e di efficacia. Peggio: gli insegnanti che concludono positivamente questo percorso sono gettati nella mischia della graduatoria permanete (sono il 3,7% dei precari) in attesa del posto, senza alcun vantaggio e nessun legame tra il titolo acquisito e l’‘assunzione in ruolo. Per questo grave errore di progettazione, le scuole di specializzazione sono diventata un mezzo come un altro per “fare punti” al fine di scalare nella graduatoria permanente (più di 200.000 aspiranti).

16.  

Ruolo del capo di istituto (il “Dirigente”)

 

È presto detto: oggi il capo di istituto ha meno poteri e ambiti di discrezionalità di 10 anni fa. È una delle prove oggettive che l’autonomia in Italia non è nemmeno partita. Se si vuole una prova ulteriore basti pensare che – dopo il conferimento della qualifica dirigenziale – sono proseguite le pratiche di assunzione “a sanatoria” anche dei dirigenti.

17.  

Sperimentazioni

DPR 119/73, art.276 D.lgs 297/94 (abrogato)

Iniziate negli anni Settanta, oggi (abrogata la legge che ne è all’origine) le sperimentazioni occupano stabilmente il paesaggio delle scuole secondarie (2.600) come surrogato delle riforme. Mai valutate, mai controllate, mai oggetto di un serio bilancio, sono diventare la trincea di chi non vuol cambiare gli ordinamenti, sapendo che ogni razionalizzazione delle sperimentazioni darebbe un serio colpo agli organici, oggi fuori controllo.

18.  

Stato giuridico degli insegnanti

Varie proposte di legge

La discussione sul nuovo stato giuridico degli insegnanti è iniziata con la presentazione (nel 2003) di una proposta di legge del Centrodestra. Il niet del Sindacato non solo ha depresso l’iniziativa parlamentare della Destra, ma ha estinto ogni velleità in tal senso anche del Centro sinistra. Il vero Stato giuridico degli insegnati resta ilo Contratto. Gli insegnanti quindi hanno un solo volto, quello del dipendente statale.

19.  

Trasferimento dei bidelli alle dipendenza degli enti locali allo Stato

Legge 124/99

Uno degli impegni programmatici PCI+DC del 1978 (disegno di legge di riforma della scuola secondaria) realizzato nel 2000, con un aumento di 42.000 di personale ausiliario.

20.  

Valutazione degli insegnanti

Art.29 del CCNL del 1999

Tentativo di Berlinguer Fallito. Il discorso è definitivamente chiuso per questa generazione di insegnanti.

21.  

Valutazione dei capi di istituto

CCNL dei dirigenti scolastici

Tentato ma non ha avuto ancora alcun esito. La finanziaria 2007 rinvia le proposte all’Istituto nazionale di valutazione – fallimento delle competenze della direzione del personale. D’altra parte è difficile valutare personale che non ha veri poteri e chiari ambiti di discrezionalità.

22.  

Privatizzazione del rapporto di lavoro del personale della scuola

D.lg. 165/01

La privatizzazione del rapporto di lavoro – è opinione comune di tutti gli specialisti – si è trasformata in una “contrattualizzazione” totale di tale rapporto, che è riuscita a sommare i vantaggio dell’impiego pubblico (sicurezza, ecc.) con quelli del privato (negoziazione, ecc.). la potenza del Sindacato è ormai diventata un formidabile ostacolo all'innovazione del sistema, poiché essa si basa su un rappresentazione dell’insegnante di puro e semplice “lavoratore” statale.

23.  

Valutazione di sistema

Invalsi (

Faticosamente costituito con provvedimento Moratti, esso è stato ridotto nella sua funzione di strumento di valutazione dell’intero sistema strettamente connesso alla valutazione di efficacia delle istituzioni scolastiche autonome. Fioroni lo ha trasformato (solo indagini a campione) in un istituzione culturale. Anche questa è una prova che l’autonomia (strettamente connessa alla responsabilità per i risultati) in Italia non c’è.

24.  

Esami di maturità

Disegno di Legge Fioroni

Si ripristina la commissione mista, ma con pochi soldi, per cui alla fine a comporre la commissione dovrebbero essere gli insegnanti dello stesso Comune di servizio. un espediente apparentemente rigoroso, ma demagogico. Non si cambia la scuola partendo dalla fine (come ha sperimentato bene Berlinguer). Né gli esami servono a minacciare riforme e severità, se tale rigore non è presente nelle pratiche quotidiane3 degli insegnanti. Comunque la spesa di 150 milioni di euro non è stata prevista nella finanziaria 2007, per cui…

25.  

Ordinamenti

L.53/03

Riformati da Berlinguer, rivisti dalla Moratti, sospesi da Fioroni. È una maledizione: l’Italia non può avere – dopo trent’anni di discussioni (vedi conferenza di Frascati 1970) – un ordinamento scoalstico ragionevolmente chiaro e stabile.

 

 
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