Scuola/lavoro: esiste una scuola migliore di altre?


IL CASO/ Esiste una scuola di "serie A" per trovare lavoro?

Il sussidiario - 16 settembre 2011 - Silvio Galeano

Mi rendo conto che rivendicare un simile diritto di questi tempi, quando i numeri che ”inchiodano” il Miur relativamente ai «tagli “trasversali” senza alcun criterio progettuale positivo» sono incontestabili e le prospettive dell’immediato futuro, per chi esercita la professione docente, prevedono blocchi degli stipendi e anche lo spettro della tredicesima a rischio per il prossimo dicembre, può sembrare un voler parlare del “sesso degli angeli”.

Che senso avrebbe? Che diritto ha chi, come me, dirigendo prevalentemente Tecnici e Professionali, vorrebbe porre a tema come fare dei Tecnici e dei Professionali scuole di “serie A”? Più che il momento della rivendicazione della “vocazione” alla scuola buona, alla scuola ben fatta [1] in tutti i settori dell’istruzione, sembra essere il momento della difesa corporativa dei legittimi interessi mortificati. Mentre, da qualche parte, sicuramente molti preparano già le nuove “pantere” autunnali, sperando che siano “rosse” e non “rosee” e teorizzano da tempo una pedagogia parallela, secondo cui sono le “occupazioni”, le “assemblee” e i “cortei” (più che le aule e i contenuti disciplinari della scuola, definita “tradizionale”) gli strumenti veri della “educazione-coscientizzazione” delle giovani generazioni (ormai scuola primaria compresa), posta al di sopra dell’educazione scolastica dello Stato. Per poi, alla fine, anch’essi rimanere delusi per la sostanziale insipienza dei medesimi giovani, pronti a disertare le aule e a riempire le strade ma non altrettanto all’impegno politico tout court e “che non sono più come eravamo noi”… e, quindi, incappando inevitabilmente in quelle problematiche e in quelle valutazioni pedagogico-educative paradossalmente molto simili a quanto Felice Crema, in un interessante dibattito di mezza estate su ilsussidiario.net, ha evidenziato (ovviamente in un altro contesto, in quello didattico istituzionale) fra i “duri” e i “malleabili”.

L’“eterogenesi dei fini”, infatti, si verifica anche nella pedagogia e/o nella didattica “ideologica” e la cronaca degli ultimi dieci anni è lì a testimoniarlo. Dovunque ci siano adulti e giovani in relazione fra loro, infatti, non si possono eliminare le questioni pedagogiche, perché dall’educazione non si esce mai. Il contesto può favorire o ostacolare le relazioni educative giovani/adulti, ma non annullarle. Esse sono un fatto strutturale della condizione umana. Mentre, infatti, si svolge l’azione politica (per enfasi: la lotta!) è pur necessario che si svolga anche l’azione educativa, che ha come scopo l’acquisizione della consapevole libertà personale del giovane educando, cioè la sua capacità “autonoma e costante” di seguire una norma liberamente riconosciuta come valore, che lo farà “libero”, facendo venir meno la necessità stessa dell’adulto educatore. Ponendolo, cioè, adulto fra gli adulti.

Ma i “tempi” di questa progressiva crescita e formazione personale dei minori e, quindi, dell’educazione non sono i “tempi” della politica. In altri termini, i tempi della costruzione della “civitas”, cioè del “bene comune civile”, all’interno del quale si pone qualunque azione educativa, non sono i tempi della costruzione della “polis”, all’interno della quale si pone qualunque azione politica [2].

Se non si scioglie questo nodo di fondo, se non si accetta questa “distinzione” di ruoli, di compiti, di responsabilità, permarrà l’incomprensione radicale fra le due legittime esigenze, che continueranno a stritolare l’identità degli insegnanti fra la sponda di Scilla, che è l’educazione, e quella di Cariddi, che è la politica, non riconoscendo che la dignità dell’azione educativa non è da meno della dignità dell’azione politica, che la mission dell’uomo educatore non è da meno della mission dell’uomo politico. Solo che essa agisce (e non può essere altrimenti) con tempi e finalità di efficacia/efficienza strutturalmente diversi, egualmente prioritari.

Un esempio: che cosa facevano i “maestri”, e molto di più le “maestre”, durante la Grande Guerra o nel Secondo dopoguerra, mentre i soldati erano al fronte o il Paese usciva da una distruzione inenarrabile, per affermare il valore etico della “libertà” dello Stato italiano nel contesto internazionale? Facevano “scuola” e non potevano fare altro per curare, nel frattempo, la crescita del valore della libertà morale nelle giovani coscienze con lo strumento dell’istruzione. Certo che quei tempi erano ben più magri. Ma così salvavano la civiltà di un popolo nello sfascio generale e ponevano, da subito, le premesse per una rinascita sociale. Perché il minore l’adulto ce l’ha davanti hic et nunc e deve dare risposta al suo bisogno di crescita e di formazione. Ed è questa una considerazione di estremo realismo, nonostante l’apparente idealismo.

La responsabilità educativa, infatti, non viene meno neanche quando le prospettive economiche per il futuro non siano rosee. Anzi, questo è il tempo per la formazione di personalità forti, creative, generose, oneste… in quanto la speranza non può risiedere altrove che nei giovani e, pertanto, nella permanenza del lavoro di adulti significativi per loro, cioè di buoni insegnanti, perché c’è un tessuto civile da supportare se non proprio da ricostruire.

Bene, se in un qualche modo si intravede che il nodo dello stritolamento dell’identità del docente possa essere sciolto [3], se cioè, comunque, può non sussistere il ricatto dell’“astrazione” per chi si occupa professionalmente della buona crescita e della buona formazione dei giovani (anche quando l’economia non va bene o quando la disoccupazione si prospetta per le nuove generazioni), allora si può porre serenamente la domanda: Quali insegnanti servono per far crescere e studiare i nostri ragazzi in questo momento storico della “polis”? E, memori della grande ricostruzione italiana del Secondo dopoguerra, interrogarsi su Come rendere i Tecnici e i Professionali scuole attraenti per i giovani?

Perché essi sono ora davanti a noi e non possono aspettare che i tempi migliorino e ci siano tutte le condizioni economiche, che consentano un lineare inserimento nel mondo del lavoro. Fra l’altro, l’esperienza dimostra che il benessere di per sé non garantisce un bel nulla sulla “qualità” della formazione del loro carattere e sull’acquisizione puntuale di competenze. Ecco perché, innanzitutto, abbiamo bisogno di docenti che abbiano chiaro proprio questo loro compito “civile” per il bene comune senza complessi di inferiorità nei confronti di chicchessia, ritenendo sempre prevalente la responsabilità educativa dell’adulto di fronte all’educando, che non ha nessuna colpa diretta delle crisi economiche e/o politiche e che è egli stesso una domanda impellente di educazione.

La “polis” lungimirante dovrebbe essere sempre grata ai costruttori di “civitas”, ma non accade quasi mai, perché chi ha un orizzonte culturale rivolto al conseguimento del risultato immediato difficilmente comprende le ragioni e le esigenze di chi costruisce per il medio e il lungo periodo.

Ecco perché, soprattutto oggi, è necessario garantire ai nostri studenti una buona scuola, di qualunque indirizzo essa sia. E allora il dibattito può iniziare sulla domanda “Si può fare dei Tecnici e dei Professionali una scuola di “serie A”?

 

[1] V. Garcia Hoz, L’educazione personalizzata (curatore G. Zanniello), La Scuola, Brescia 2005.

[2] G. Corallo, L’educazione. Problemi di pedagogia generale, A. Armando, Roma 2010; M.T. Moscato, Educare la libertà. Gino Corallo, CLUEB, Bologna 2009.

[3] Anche se mi rendo conto che la giustificazione di un simile punto di vista sulla società come “civitas” oltre che come “polis” merita argomentazioni ben più approfondite soprattutto per le ricadute educative (cfr. L. Bruni e S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004).

 
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