Invertire la decadenza: Gentile, 100 anni e una riforma


Fonte: Il sussidiario.net. Articoli di Giorgio Chiosso del 07.02.2023 e 14.02.2023 - La riforma di Giovanni Gentile viene continuamente chiamata in causa come origine di molti dei mali della scuola. Ma cosa è stata in realtà?

Cento anni fa, tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, nelle stanze del Palazzo della Minerva, l’ex convento dei Domenicani, in Roma, oggi sede della Biblioteca del Senato (allora ospitava il ministero della Pubblica Istruzione) un ristretto manipolo di studiosi guidati dal filosofo Giovanni Gentile elaborò quella che è forse la riforma più nota della storia scolastica italiana: la riforma che prese il nome del filosofo che Mussolini aveva voluto al proprio fianco nel suo primo governo.

Gentile e Mussolini fino a quel momento non si erano mai incontrati e la loro collaborazione fu favorita da “ambasciatori” di entrambe le parti, spinti da ragioni diverse pur convergenti nella critica all’Italia giolittiana. Quanti erano vicini a Mussolini sollecitavano il capo del fascismo ad arricchire il suo governo con una personalità di grande autorevolezza nella vita culturale di quegli anni. Giolitti aveva coinvolto Benedetto Croce nell’ultimo suo governo, poteva Mussolini essere da meno?

Coloro che parteggiavano per Gentile e con cui si battevano per rinnovare la scuola erano convinti che finalmente si presentava l’occasione idonea per dare all’Italia una scuola libera da incrostazioni positivistiche e, attraverso la sua rigenerazione, rendere migliore la società italiana, sottrarla alle sirene dell’utilitarismo e del materialismo. Gentile accettò a due condizioni: che cessassero immediatamente le violenze che avevano insanguinato il seguito della marcia su Roma e che gli fosse lasciata mano libera nella riforma scolastica.

Contrariamente ad un’opinione ampiamente ed erroneamente diffusa, la riforma di Gentile (e per la scuola elementare il geniale riordino predisposto da Giuseppe Lombardo Radice) non fu affatto una “riforma fascista” e la sua genesi fu ben anteriore alla creazione dei fasci mussoliniani. Essa va cercata invece nelle discussioni che si susseguirono nel primo quindicennio del Novecento sullo scadimento della scuola (specie quella secondaria) del tempo. Giovani intellettuali di varia ispirazione – liberali, vociani, nazionalisti, cattolici, qualche socialista – affascinati dalla filosofia e dalla personalità del filosofo siciliano furono con lui concordi nel denunciare l’illusione positivista che il “progresso” e il perseguimento dell’utilità economica potessero rappresentare la bussola ideale e morale della società.

Il decadimento di una scuola senza alti ideali era testimoniato, secondo i gentiliani, da fenomeni che avevano tolto alla scuola l’antico prestigio che risaliva al rigore dei collegi gesuitici: l’esasperata ricerca del “pezzo di carta” da raggiungere a ogni costo, anche senza merito, l’esame facile, la mediocre qualità dei docenti spesso improvvisati e il tutto condito dalla preoccupazione delle famiglie di aiutare in ogni modo i figli a salire sull’ascensore sociale. Una scuola, insomma, dominata dall’individualismo e dall’utilitarismo.

I fascisti in genere e soprattutto quelli intransigenti non amarono né Gentile né la sua scuola (lo stesso Mussolini dopo il 1929 ne avrebbe sollecitato il superamento) che giudicavano troppo severa e non coincidente per il suo sostanziale liberalismo con l’impronta autoritaria del regime. Le avrebbero ben presto opposto un modello educativo del tutto diverso, le cui radici affondavano nelle esperienze belliche dell’arditismo e nelle visionarie intuizioni futuriste. Anziché faticare sui libri i giovani sarebbero dovuti crescere mediante l’esercizio fisico, la pratica sportiva e la formazione militare, l’esaltazione della lotta come misura del coraggio: le qualità insomma richieste allo squadrista piuttosto che allo studente.

Come i più recenti studi condotti su questi temi hanno ormai inequivocabilmente dimostrato, il fascismo maturo sentì come “sue” più l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio – nei cui reparti paramilitari i giovani (non tutti, perché più d’uno sgarrava) venivano inquadrati nel loro tempo libero – che la forza disciplinatrice della cultura, e cercò di liberarsi, peraltro senza riuscirci, della scuola gentiliana.

Gentile e i suoi avevano un’idea quasi religiosa della scuola che nulla spartiva con il movimentismo fascista, un’idea severa e rigorosa, al servizio – come si diceva allora – della “Nazione”, e cioè di una idealità che oltrepassava le aspettative dei singoli e s’inverava nello Stato etico: la scuola doveva essere la palestra nella quale i giovani apprendevano non solo il sapere colto (la scuola liceale) e le conoscenze necessarie per un’attività professionale (l’istruzione tecnica), ma anche – e soprattutto – uno stile di vita improntato a valori ben interiorizzati. Questo patrimonio li avrebbe dovuti accompagnare nella vita adulta, dando un senso al loro essere cittadini.

L’educazione nazionale doveva coincidere, attraverso la maturazione della coscienza filosofica, con la formazione morale, il vero centro della riforma.

Gentile era fermamente convinto che soltanto un popolo nutrito di una cultura radicata nella tradizione e non in balia dell’ultima moda – nel senso, dunque, di un sapere non fine a sé stesso ma trasferito e reinventato nella realtà quotidiana – era un popolo destinato a progredire, in grado di affrontare e risolvere i problemi, educato non solo a rivendicare diritti ma anche a onorare i doveri che la convivenza umana comporta. Nel restare aderente alla mentalità del tempo il filosofo siciliano era convinto che il compito della “rinascita nazionale” toccasse al ceto borghese e che proprio l’indebolimento morale della borghesia (che egli in larga misura faceva coincidere con il suo impoverimento culturale e con la ricerca dell’utile immediato) era una delle ragioni della fragilità della nazione.

Molta attenzione il filosofo riservò ai doveri dei docenti (I nuovi doveri si intitolava una rivista realizzata con Lombardo Radice e uscita tra il 1908 e il 1911). Attraverso il suo comportamento l’insegnante doveva essere il modello cui gli allievi avrebbero dovuto conformarsi. La qualità morale e culturale di maestri e professori era perciò la condizione prima perché la scuola conseguisse i suoi obiettivi. Da qui il rigore con cui il ministro predispose i concorsi attraverso cui reclutare i docenti.

Gli studiosi hanno indagato pregi e limiti della riforma, compresa la capacità di resistere ben oltre la fine del regime. La riforma gentiliana fu politicamente conservatrice, ma culturalmente liberale, statalista ma non fascista, severamente selettiva, socialmente classista, pensata principalmente per rigenerare la borghesia del tempo, ma poco o nulla attenta alle aspettative dei ceti popolari, per i quali le uniche possibilità di scolarizzazione erano il quinquennio elementare ampliato, nel migliore dei casi, a corsi di studio pratico senza sbocchi. Sintomatico è il fatto che i corsi che avviavano i giovani direttamente alle professioni fossero affidati alle competenze dei ministeri economici e non a quello dell’istruzione.

Soltanto la scuola di massa, e cioè l’ampia scolarizzazione che dagli anni 60 affollò le aule, riuscì a metterla definitivamente in crisi, per quanto alcuni tasselli dell’impianto gentiliano resistano – incrollabili – ancora oggi come, ad esempio, il mito del liceo classico come la scuola per definizione “dell’eccellenza” e la gerarchia che si perpetua in molti – in ragione di questa presunta eccellenza – nel giudicare il valore formativo e culturale delle altre tipologie scolastiche.

Della riforma Gentile oggi constatiamo ed ammiriamo la perfetta corrispondenza tra lo spirito animatore e la realizzazione pratica, ma non possiamo certamente prenderla come un modello cui ispirarsi. La riforma di cent’anni fa è archiviata negli annali della storia, una grande fotografia per cogliere la temperie di un’epoca, insomma un tema ormai delegato a quanti si cimentano con la ricostruzione dell’Italia del primo Novecento.

(1 – continua)

2/ Dentro e oltre: libertà contro procedure, l’eredità buona di Gentile

La scuola di oggi è lontanissima da quella che Gentile riformò nel 1923. Eppure ci sono due aspetti della riforma il cui nocciolo di verità è ancora valido

La riforma scolastica del 1923 – la riforma Gentile – non ebbe vita facile. Già nel 1925 il ministro Fedele vi apportò alcuni “ritocchi”, alla fine degli anni 20 venne potenziato l’ambito tecnico-professionale che il ministro filosofo aveva lasciato in disparte e fu creata la scuola di avviamento al lavoro. Nel 1939 la Carta della Scuola disegnò quella che avrebbe dovuto essere la scuola fascista, con una netta presa di distanza dal provvedimento del 1923, progetto tuttavia restato sulla carta in seguito allo scoppio della guerra.

Ben diversamente da quanto accadde al regime che aveva posto le condizioni per la sua realizzazione, la scuola disegnata nel 1923 non fu trascinata nella disfatta del fascismo. Gli uomini che ricostruirono la scuola della Repubblica – sia quelli di tendenza moderata, sia gli esponenti di sinistra, gli uni e gli altri cresciuti tra filosofia, letteratura e lingue classiche – ne richiamarono e ribadirono con insistenza l’autorevolezza e ne confermarono la validità. La sua influenza resistette almeno fino agli anni 60, quando la diffusa scolarizzazione rese impraticabile una formula educativa progettata per una scuola altamente selettiva, finalizzata a coltivare soltanto gli alunni migliori destinati a proseguire negli studi.

La scuola di oggi centrata sul principio dell’inclusione – se pur corretta dal riconoscimento che va dato al merito – è incomparabilmente distante da quella gentiliana, così come la nostra società non è minimamente paragonabile con quella di un secolo orsono. Basta pensare a come oggi, a differenza di cent’anni fa, la scuola ha temibili concorrenti nei media, nell’impiego delle tecnologie, nei social e nella circolazione a vasto raggio delle informazioni e come – anche nell’opinione pubblica – essa non goda più della stima del passato e soprattutto non sia più quell’automatico ascensore sociale per salire sul quale meritava studiare. Alcuni sono addirittura convinti che la scuola non serva e sia più efficace autoformarsi a contatto con le immense risorse (e i mille tranelli) forniti dal web.

Sono trascorsi appena cento anni, ma sembra che sia passata un’era geologica tali e tanti sono stati i cambiamenti che nel frattempo hanno modificato gli stili di vita.

Eppure ci sono almeno due aspetti della riforma Gentile su cui ancora merita svolgere qualche riflessione. Il primo riguarda la centralità assegnata alla scuola e alla cultura contemporanea e a quella trasmessa dalla tradizione che essa ha (o dovrebbe avere) il compito di promuovere nella vita sociale; il secondo l’attenzione posta alla formazione della coscienza personale (quello che, detto con il linguaggio delle soft skills, è il character).

Alla scuola il ministro filosofo affidava il compito non solo di assicurare agli allievi un’istruzione all’altezza dei bisogni della vita adulta, ma anche una funzione civile: alla validità e vitalità della scuola corrispondevano, secondo Gentile, una società consapevole del suo destino e cittadini all’altezza delle loro responsabilità. La mediocre o pessima qualità della scuola era anche l’antefatto della disgregazione sociale. Una società senza una buona scuola era in balia di sé stessa e di tutti gli allettamenti utilitaristici che le stavano intorno, una società, in una parola, senza identità. Nel caso di Gentile l’identità coincideva con il senso sacro della Patria e cioè – detto con le parole del nostro tempo – con la consapevolezza di far parte di una comunità.

In questa convinzione c’era più di un auspicio, c’era anche una buona dose di utopia, ma – con tutti i limiti che possiamo rimproverarle, soprattutto quello di essere una scuola distinta per ceti – è possibile trovarvi anche un forte richiamo al dovere della politica in primis, ma anche della società civile nel suo complesso, di provvedere ad assicurare alle giovani generazioni programmi di studio ben organizzati, insegnanti preparati, strutture adeguate.

È purtroppo quasi scontato constatare che oggi siamo ben lontani da un ceto politico che davvero ha a cuore la dignità della scuola e spesso, anzi, la concepisce soltanto in funzione dell’assorbimento della disoccupazione intellettuale o, in altra direzione, in forme puramente custodiali. Da più parti si segnalano i rischi che essa perda irreversibilmente la sua tradizionale centralità nella vita sociale, ridotta – come già sta accadendo in diversi casi – ad essere utile soltanto per gli spazi di socializzazione orizzontale (con i pari) e verticale (con adulti diversi dai genitori) che assicura. Qualche anno fa l’ex ministro dell’Istruzione, Tullio De Mauro, ha ripreso il concetto con una concisa e anche drammatica espressione: “Una società non può permettersi il lusso di due generazioni di analfabeti”.

La seconda riflessione che suggerisce la riforma di Gentile è la centralità attribuita alla formazione della coscienza personale. L’educazione, ieri come oggi, è un evento che si compie mediante quella che il ministro filosofo definiva “l’incontro di anime”. Non è un prodotto quantificabile e pre determinabile, è il senso dell’umano che trasmigra da chi ha più storie da narrare ed esperienze da proporre a chi sta crescendo, cercando la propria via. Se viene meno il senso “umano”, l’educazione – posto che si possa ancora così definire – si riduce a pura esperienza cognitiva e operativa il cui orizzonte di azione è finalizzato al cambiamento senza bisogno di guardare “dentro” e “oltre”.

Prevalgono le procedure formalizzate (cognitive, sociali, comportamentali) rispetto ai processi basati sull’esercizio della libertà. È quanto sta accadendo da qualche decennio – dietro la spinta di ragioni economiche e produttive – in larga parte della cultura pedagogica contemporanea, debitrice della cultura anglosassone di matrice comportamentista e pragmatista.

Se si perde di vista il “senso” del nostro agire, lo scopo si riduce a garantire l’infinita possibilità di plasmabilità/trasformazione dell’uomo secondo le esigenze via via emergenti.

(2 – fine)




 
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