Il dibattito sul Decreto Legge per la Formazione dei docenti:


 

SCUOLA/ Formazione iniziale, i grandi assenti: valutazione e carriera

Fonte: Il Sussidiario.net Articolo del 05.05.2022 di Alessandro Artini. Nel nuovo dispositivo della formazione iniziale dei docenti mancano i criteri per valutare i docenti e non c’è traccia di carriera. Perché?

Il decreto legge n. 36, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 aprile scorso, disciplina, dall’art. 44 all’art. 47, la questione della formazione iniziale dei docenti e del loro reclutamento. La norma muove dal riconoscimento che la professionalità di un insegnante non possa consistere nella sola preparazione disciplinare, cioè nella conoscenza della materia che egli si propone di insegnare, ma che richieda anche specifiche conoscenze di natura psico-pedagogica e didattica e soprattutto la capacità di impiegare queste ultime efficacemente nelle lezioni.

Il presupposto non è di poco conto, considerato che tutt’oggi molti docenti tengono lezione nello stesso modo che adottavano i loro insegnanti, quando cioè essi erano ancora alunni. Il tasso di riproduzione delle modalità tradizionali d’insegnamento è tutt’oggi molto forte in Italia e il pregiudizio che la sola conoscenza di una materia sia sufficiente a sviluppare la capacità d’insegnare è ben radicato. La conoscenza, infatti, che è certamente imprescindibile, non può ritenersi esaustiva in sé per la professionalità docente, senza il supporto delle tecniche didattiche. Quindi il presupposto per i cambiamenti in merito alla formazione iniziale e al reclutamento è condivisibile.

Si rilancia anche il tema della formazione in servizio, che era già stato affrontato con nettezza dalla legge cosiddetta della Buona Scuola (legge 107/2015). Il comma 124 dell’art. 1, infatti, affermava che essa sarebbe dovuta essere obbligatoria, permanente e strutturale, ma successivamente tali definizioni normative sono state “svuotate” di significato, mediante l’affidamento ai collegi dei docenti della quantificazione delle ore per la formazione stessa. Ovviamente i sindacati, che si sono opposti alla legge della Buona Scuola fin dal suo atto di nascita, hanno avuto buon gioco a eludere un tale obbligo, grazie alle modeste quantità orarie deliberate dai collegi dei docenti. Adesso, con il decreto pubblicato recentemente, la formazione in servizio dei docenti, sempre definita come continua e strutturata, pare tornare in auge e viene finalizzata a favorire l’innovazione dei modelli didattici, particolarmente alla luce dell’esperienza maturata durante l’emergenza sanitaria.

Una parte di essa, quella sulle competenze digitali e sul loro uso critico, sarà obbligatoria per tutti e si svolgerà nell’ambito dell’orario lavorativo, ma si introduce anche un sistema di aggiornamento e formazione, sempre finalizzato alla progettazione didattica innovativa, che sarà svolto esternamente all’orario di lavoro. In questa prospettiva, sarà previsto anche un incentivo stipendiale. Si pongono, infine, le basi per una Scuola di Alta Formazione che adotterà specifiche linee di indirizzo e accrediterà le strutture erogatrici dei corsi, per garantirne la qualità. Le sue attività saranno destinate anche ai dirigenti e al personale. Dunque ci sono varie novità, la cui consistenza, tuttavia, emergerà solo in fase attuativa, perché come è noto le regole d’implementazione, spesso definite di concerto con i sindacati, riescono ad attenuare o eludere i cambiamenti più importanti. In particolare, la fase transitoria che viene prefigurata corre il rischio, come è avvenuto in altri casi, di trasformarsi in definitiva, in ossequio all’aforisma di Flaiano per il quale “nulla è più definitivo del provvisorio”. La transitorietà sarà più difficile da superare se essa consentirà il mantenimento di vantaggi per alcuni soggetti.

Soprattutto non si intravede con chiarezza come la professionalità docente debba essere misurata concretamente nel contesto dell’esperienza reale d’insegnamento, rispetto alla quale dovrebbero essere indicati gli strumenti di misurazione e le istituzioni atte a valutarla. Neppure si vede profilarsi all’orizzonte la definizione di una carriera, che possa valorizzare le alte professionalità che lavorano a scuola. Queste ultime, infatti, spesso svolgono funzioni fondamentali di supporto al sistema scolastico: come potremo far sì che esse continuino a mantenersi nel tempo? Molti di quei docenti, indispensabili alle scuole, ne ricavano magri compensi economici e riconoscimenti ancora più esigui sul piano morale. Lo Stato, infatti, si ostina a mantenere un frustrante e irrealistico egualitarismo, che ignora le profonde differenze tra chi lavora dando l’anima e chi, invece, si accontenta del minimo.

Soprattutto si ignora ciò che è stato fatto da quei docenti (unitamente ai dirigenti scolastici) nel periodo della pandemia. Molti di loro, che nei momenti più difficili hanno offerto un impegno ininterrotto, anche a costo di sacrifici personali, oggi si tirano indietro e vivono con delusione lo stato attuale. Fatte le debite differenze, pare quasi che si riproponga il mito della “vittoria mutilata”, che si era diffuso tra i reduci della Grande guerra, i quali avevano rischiato la vita e combattuto senza sosta nelle trincee, per poi tornare ai problemi di sempre, aggravati dalla crisi economica postbellica.

La definizione di una carriera docente, tuttavia, rappresenterebbe un passo di natura meritocratica avverso il quale i sindacati della scuola non esiterebbero a scatenare la loro mobilitazione. Il merito, suggerirebbe l’amico Roger Abravanel, continua a far paura.

 

 

SCUOLA/ Formazione docenti e paritarie: le amnesie di Bianchi e del Governo

Fonte: Il Sussidiario.net Articolo del 02.05.2022 di Roberto Pasolini. Il nuovo sistema di formazione iniziale e reclutamento docenti appare ben congegnato, ma disapplica la legge 62/2000 sulla parità scolastica. Perché?

Il ministero dell’Istruzione ha deciso e, viste anche le scadenze di carattere internazionale, ha proposto ed ottenuto il 22 aprile scorso l’approvazione dal Consiglio dei ministri di una nuova modalità per il reclutamento e di formazione iniziale dei docenti.La responsabilità è grande, per le pressioni crescenti e l’urgenza di avere una modalità innovativa rispetto al passato: funzionale, veloce, semplificata da un punto di vista burocratico che permetta, a chi lo desidera, di ottenere l’abilitazione all’insegnamento indipendentemente dall’assunzione in ruolo nello Stato, con una formazione iniziale all’altezza dei tempi ed in linea con i Paesi con i sistemi scolatici più avanzati secondo il ranking internazionale.

Onestamente sorge un primo dubbio: “vera volontà politica” di mettere mano in maniera risolutiva ad un annoso problema che oggi vede giovani laureati da ben otto anni nella impossibilità di potersi abilitare potendo accedere solo ad un lavoro precario, o “necessità economica” per dare risposta alle richieste europee che hanno posto tra le riforme irrinunciabili una riforma della procedura di assunzione e formazione iniziale dei docenti e accelerare la realizzazione del Pnrr?

Lo capiremo a testo definitivo approvato entro giugno. Nel frattempo, non sono mancate da subito le inevitabili e tradizionali critiche e polemiche che accompagnano da sempre una proposta di riforma. Il mondo politico ha lamentato il fatto che la presentazione del testo in Consiglio dei ministri sia avvenuta senza una previa condivisione e lettura da parte degli stessi ministri. Sicuramente i tempi stretti legati alla necessità di rispettare le scadenze previste dal Pnrr hanno inciso, ma la mancata condivisione ha messo sul piede di guerra i sindacati, con reazioni che vanno da riforma inadeguata a riforma che porta indietro la scuola di quarant’anni, fino a considerarla inaccettabile, bocciando non solo i contenuti ma anche il metodo, ossia la scelta di far approvare “un piano di questa portata” senza un vero confronto, né con il Parlamento né con le parti sociali, in contrasto con il Patto per la scuola firmato l’anno scorso, che prevedeva un percorso partecipato su questi temi.

La speranza è che questi contrasti possano rientrare a seguito di un sereno confronto, ma che soprattutto il risultato finale possa essere l’approvazione della riforma di cui il Paese ha bisogno per portare il nostro sistema scolastico verso la necessaria modernizzazione, che non può che partire da docenti adeguatamente preparati e qualificati ad affrontare le sfide professionali ed educative che il nostro tempo richiede e di cui i nostri studenti hanno diritto.

I due mesi di confronto e dibattito parlamentare che porteranno all’approvazione definitiva assumono una grande importanza e la politica è chiamata ad assumersi tutte sue responsabilità per varare un testo adeguato alle attese ed alle necessità.

Personalmente ritengo che il testo proposto abbia un’impostazione di base positiva, che nel medio periodo produrrà miglioramenti alla procedura di reclutamento e di abilitazione e al livello di formazione iniziale dei docenti. Occorrono ritocchi ed aggiustamenti ed in questo concordo sostanzialmente con quanto indicato da Carlo De Michele nel suo recente articolo. Ritengo importante che il testo presentato preveda due fasi distinte per l’acquisizione dell’abilitazione all’insegnamento e la partecipazione al concorso per l’assunzione nello Stato poiché, a regime, questo permetterà di avere costantemente sul mercato del lavoro un adeguato numero di docenti abilitati a pro del settore paritario, che potrà disporre di personale docente qualificato, e dei nostri giovani, che potranno uscire dalla situazione di precariato e stipulare contratti a tempo indeterminato. Occorrerà, invece, rinforzare e consolidare la sinergia scuola-università nella fase di preparazione per l’acquisizione dell’abilitazione per rafforzare la “preparazione pratica sul campo” dei nuovi docenti già al momento dell’abilitazione, per non rimandarla solo all’anno di tirocinio. Problemi gravi, invece, sorgono per il nostro settore dato che, ancora una volta, la scuola paritaria è stata dimenticata. Continuiamo ad essere invisibili. La struttura della proposta è per la scuola statale, fatta su misura sul modello statale e legata ai contratti di lavoro previsti per il personale statale. Non può essere così! La nuova procedura deve considerare tutte le esigenze di sistema e, dall’approvazione della legge 62/2000, deve tener conto che le scuole paritarie fanno parte a pieno titolo, e dovrebbe essere anche con pari dignità, dell’unico Sistema nazionale di istruzione e formazione.

Quando il ministero deciderà di tenerne conto?

Se, ad esempio nell’art. 5 comma 4, si prevede una deroga per i docenti che hanno “un servizio presso le istituzioni scolastiche statali di almeno tre anni scolastici, anche non continuativi, nei cinque anni precedenti”, perché non prevedere analoga deroga anche per chi ha svolto il servizio nella scuola paritaria?

Le associazioni di settore si sono mosse nell’immediato e, con un comunicato hanno sollecitato il mondo politico a ricordarsi anche delle scuole paritarie, proponendo le modifiche necessarie. Occorre, ad esempio, che le norme transitorie contemplino una procedura che preveda una soluzione per i 15mila docenti delle scuole paritarie in attesa di potersi abilitare e così stabilizzare il loro contratto di lavoro.

Il mondo politico, diversi esponenti di alcuni partiti, sembra abbiano recepito il problema. Ci auguriamo che arrivino anche le modifiche e la soluzione e ci venga tolto, anche per il futuro, il “mantello dell’invisibilità”.

 

 

SCUOLA/ Formazione iniziale e concorsi, alto rischio che cambio (solo) in peggio

Fonte: Il Sussidiario.net Articolo del 03.05.2022 - Maria Grazia Fornaroli. Il sistema di arruolamento dei docenti si affida ancora alla macchina obsoleta dei concorsi. Così la professionalità non troverà mai spazio

C’è un nuovo sistema di arruolamento dei docenti, lo ha definito il Parlamento con il decreto legge del 21 aprile, 70mila nuovi docenti entro il 2024: percorsi integrati fra scuola e università, differenti a seconda del numero di anni di precariato, concorsi solo al termine del percorso e corsia preferenziale per i precari storici. I sindacati hanno manifestato il loro malumore per non essere stati coinvolti in tempo utile nelle decisioni. Le associazioni professionali hanno espresso una loro tiepida approvazione. Si è trattato probabilmente dell’ennesimo tentativo di mediazione in un quadro politico in cui la maggioranza è costituita da forze politiche che rispetto al tema scuola (come ad altri, peraltro) hanno visioni enormemente differenti.

Fatta la norma, l’auspicio è che si riesca nella realtà a costruire una sinergia positiva ed efficace tra i sistemi; Siss e Tfa (i percorsi di avviamento alla professione docente promossi dalle università) avevano mostrato la possibilità di percorsi costruttivi, con qualche aggiustamento avrebbero potuto costituire la strada maestra per contribuire alla formazione di una professionalità docente solida. Si sarebbe dovuto potenziarne la struttura, verificare puntualmente la loro competenza valutativa e incrementare la relazione fra sistemi.

Si è voluto invece dare nuovo spazio allo strumento concorsuale: prova selettiva informatizzata e colloquio conclusivo. I risultati li stiamo vedendo: in un contesto di graduatorie esaurite, si è messa in moto una macchina mastodontica e improduttiva, che sta dimostrando tutta la sua inefficacia, eppure anche il decreto appena emanato sembra volerla conservare. Si continua a non voler accogliere le migliori pratiche straniere, non si vuole rinunciare a prassi obsolete.

Io stessa ho in questi mesi assistito impotente a procedure assolutamente anacronistiche, nonostante l’informatizzazione pervasiva. Molti istituti, anche quello che dirigo, sono diventati sedi delle prove selettive, laboratori didattici sacrificati alla macchina concorsuale, personale docente e non docente impegnato ad assicurare la regolarità delle procedure, dirigenti scolastici in testa.

Un modello davvero umiliante per l’intera categoria: assenti molti candidati, percentuali irrisorie di esiti positivi con conseguenti drammatiche delusioni coram populo, una macchina arrugginita, umiliante per tutti. Nozionismo puro, in cui di non cognitive skills non c’è traccia.

Ma non è questo il peggio: il peggio è rappresentato dalla percezione che la realtà scolastica, le competenze, le professionalità riconosciute da genitori e soprattutto dagli studenti, i veri protagonisti dell’azione formativa, non abbiano alcun peso nella selezione, men che meno l’eventuale giudizio del dirigente delle scuole in cui i docenti prestano servizio, totalmente escluso da qualsiasi funzione valutativa.

Anche il nuovo decreto per la verità attribuisce al Comitato di valutazione, presieduto dal dirigente scolastico, la responsabilità di confermare il percorso di arruolamento, ma conosciamo la debolezza di questa procedura, che viene collocata solo alla conclusione dell’iter.

Chiamato quotidianamente a render conto all’amministrazione, al personale, ma soprattutto ai ragazzi e alle famiglie dell’efficacia dell’azione culturale e formativa, il dirigente scolastico guarda smarrito a questa misteriosa cabala.

Un dirigente competente sa chi sono i buoni insegnanti, ma continua a non avere alcuna voce in capitolo nella scelta.

Chi scrive, per esempio, nella propria scuola, ha incontrato molti giovani con le giuste caratteristiche, eppure quasi tutti bocciati attraverso le batterie dei recenti concorsi: è ragionevole tutto ciò?

Davvero umiliante per questi giovani (e meno giovani) continuare a lavorare con la “patente” dell’insuccesso stampata sulla fronte, che anacronistica mortificazione, che dispiacere per i loro alunni che ne hanno apprezzato la preparazione, ma che non li troveranno in cattedra il prossimo anno.

Troviamo metodi di selezione più efficaci. Si tratta di una priorità di emergenza nazionale. Modelli stranieri e proposte pervenute dai master promossi per lo sviluppo della leadership scolastica offrono un’ampia gamma di modelli di selezione, anche in questa occasione, trascurati. Lo ripetiamo ancora una volta: il buon insegnante è innanzitutto chi desidera spendere la propria professionalità con e per i giovani, bambini o adolescenti che siano.

Il buon insegnante è innamorato delle discipline che insegna, desidera approfondirle, desidera proporle ai più giovani, perché persuaso che attraverso di esse, la realtà, nella sua complessità, possa essere più comprensibile e affascinante.

Il buon insegnante sa scegliere i contenuti essenziali della disciplina, li sa mettere in contatto con le altre discipline, ma desidera anche paragonarle continuamente con la realtà.

Il buon insegnante sa valutare con trasparenza ed equità, il buon insegnante si aggiorna costantemente, non per meri obblighi burocratici, ma perché, come ogni bravo ricercatore, conserva un infinito desiderio di conoscenza.

Il buon insegnante sa che la cultura ha costantemente bisogno di relazioni, di contatti, pertanto non si chiude nel proprio sapere, ma è disponibile a lavorare in maniera appassionata con i colleghi.

Il buon insegnante vive con responsabilità il proprio presente ed è quindi disponibile a confrontarsi con i nuovi bisogni, con la dimensione interculturale, con le difficoltà nell’apprendimento, con le nuove fragilità, senza scandalizzarsi per i propri e altrui limiti, ma desideroso di orientare la propria fatica quotidiana a far incontrare ai più giovani la strada meravigliosa della conoscenza e contemporaneamente a rendere conto del proprio lavoro.

Si tratta di doti raffinate, alcune acquisibili, ma per lo più innate, ars e ingenium direbbe Cicerone, doti per una professione appassionante, ma anche molto impegnativa, a cui guardare almeno con la stessa stima di altre “alte” professionalità e con risorse adeguate.

Difficile che con le attuali condizioni i migliori laureati (soprattutto nelle discipline scientifiche e tecniche) si sottopongano a prove dagli esiti così casuali, senza alcuna prospettiva di carriera e con un contesto sociale e mediatico così ostile.

Di fronte al tentativo, pur imperfetto, di costruire un modello di arruolamento e di sviluppo professionale più persuasivo, che non valorizzi per esempio la sola anzianità di carriera, si è di nuovo gridato allo scandalo, si teme di nuovo che il preside manager assuma ruoli censori, torna a risuonare il ritornello della libertà di insegnamento totalmente autoreferenziale. Ma quale professionista non rende conto ai superiori e ai fruitori dei propri servizi dell’esito del proprio impegno?

Auspichiamo, in realtà, che si accostino a questa straordinaria professione i migliori laureati che ne abbiano le caratteristiche e che soprattutto possano incontrare, come in ogni professione che si rispetti, maestri, tutor, figure senior che possano contribuire seriamente alla loro formazione. Figure di professionisti che vengano dalla scuola e non dall’università, lontanissima dalla quotidiana emergenza che si incontra nelle aule.

Non siamo sicuri che il decreto appena approvato costituisca la migliore soluzione. Forse è comunque la migliore attualmente percorribile. Speriamoci.

 
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