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I giovani di oggi sono come i giovani di sempre

Fonte: Atlantide. Articolo di Franco Nembrini dell’agosto 2023. Il loro cuore è sempre quello ma c’è come una barriera che impedisce loro di comunicare con il mondo. Occorre allora un segnale più forte. Ed ecco che entrano in gioco gli adulti. Sono loro che devono preoccuparsi di mandare un segnale più potente per perforare quello schermo. Per abbattere quella barriera che ostruisce la comunicazione. Carlo Collodi aveva capito l’antifona. Il suo Pinocchio vive in pieno questo problema. Ma nel cammino di quella storia emergono fattori che aiutano a comprendere la portata della sfida. Il grido che viene dal cuore di Pinocchio, di tutti i Pinocchio. Il racconto di un professore che sta con i giovani da quasi cinquant’anni. Un’esperienza dalla prima linea che fa saltare il banco dell’ovvio, del prevedibile.

Con i giovani sto da ormai quasi mezzo secolo. Ho cominciato che non avevo ancora vent’anni, insegnando religione nelle scuole medie, poi per decenni ho insegnato italiano ai miei ragionieri bergamaschi. Ho contribuito a fondare e a guidare una scuola paritaria, ho accompagnato giovani coppie sulla strada del matrimonio, ho avuto qualche responsabilità nel movimento di Gioventù Studentesca. Nel frxaattempo, Dio mi ha dato quattro figli, e poi mi ha inaspettatamente portato a parlare di Dante, di Leopardi, della vita a giovani di mezzo mondo. E ancora oggi continuo a incontrare ragazzi che chiedono a questo vecchio nonno una mano per camminare nella vita. Non sono uno studioso di educazione, nel senso che non mi dedico per professione a questo studio – anche se da qualche libro ho imparato molto, in primis Il rischio educativo di don Luigi Giussani. Piuttosto, mi ritengo un “esperto” nel senso più semplice del termine: uno che ha fatto esperienza. Perciò da qui, dalla mia lunga esperienza, provo a tirare fuori quello che ho visto cambiare nei giovani in questi decenni, e quello che ho visto non cambiare.

Cominciamo da qui. Provocatoriamente: i giovani d’oggi sono come i giovani di sempre. Perché il loro cuore, come sempre, lo fa Dio. Perché il loro cuore è desiderio di bene, di bello, di vero, esattamente come il cuore di tutti i giovani che sono venuti al mondo dall’inizio dei tempi. Perché allora sembrano così diversi? Perché sembra così difficile che questo cuore emerga?

Lo dico sempre con un esempio. Immaginiamo il cuore come un telefono cellulare: il telefono funziona, è fatto per ricevere i segnali che arrivano, per rispondere. Ma se noi mettiamo il cellulare dentro un bunker di cemento, i segnali fanno infinitamente più fatica a raggiungerlo. Il problema non è che il cellulare – il cuore – sia diverso da prima; è che c’è uno strato di cemento a isolarlo dal resto del mondo. Ecco, questa mi pare la situazione dei giovani oggi: il cuore è sempre quello, ma c’è come una barriera che gli impedisce di comunicare col mondo. Come si risolve questo problema? Con un segnale più potente: il problema non è il cuore dei giovani; è che gli adulti devono mandare un segnale più potente per perforare quello schermo.


La debolezza degli adulti

Ma prima di parlare degli adulti, domandiamoci: quali sono le ragioni che hanno portato alla formazione di questa barriera?

Nella mia esperienza, io ne ho incontrate sostanzialmente due.

La prima l’ho capita in un dialogo con ragazzo, geniale ma fragilissimo, che ho frequentato a lungo una ventina di anni fa. Io stavo raccontando di che cosa erano stati per la mia generazione il Sessantotto e gli anni successivi, che avevano spazzato via quasi tutto quel che restava della tradizione cristiana, quando a un certo punto il ragazzo salta su e dice: “Franco, a voi hanno portato via la fede; a noi hanno portato via la realtà”.

In un’altra occasione ho chiesto a un ragazzo, che passava tutto il suo tempo a giocare a un gioco del calcio alla Playstation perché non giocasse invece a calcio vero, e lui mi ha risposto che a calcio vero ci si sporca, fa freddo, ci si fa male; alla Playstation no.

Sì, in questi decenni ai ragazzi è stata portata via la realtà. È stata portata via la fatica che l’impegno con la realtà comporta. Non è facile indicare le ragioni di questa perdita della realtà in poche righe. Certo, negli ultimi decenni i nuovi media hanno contribuito moltissimo: oggi i ragazzi possono fare praticamente tutto davanti allo schermo del loro smartphone: possono giocare senza alzarsi dalla poltrona, possono avere l’illusione di incontrarsi senza uscire di casa, oramai moltissime relazioni sentimentali nascono e si sviluppano davanti a uno schermo (salvo finire immediatamente, e non di rado in modo drammatico, appena si incontra l’atro in carne e ossa…). Ma sarebbe sbagliato dare la colpa ai media. A mio parere c’è prima una debolezza degli adulti, c’è un atteggiamento degli adulti che credono di poter risparmiare ai giovani l’incontro drammatico con la realtà, che fanno di tutto per risparmiare loro la fatica. Una preoccupazione anche buona, se vogliamo, nella sua origine, risparmiare ai figli la fatica che hanno fatto loro; ma terribilmente sbagliata, perché senza la fatica di un rapporto vero, concreto, con il reale e con tutte le sue fatiche e i suoi rischi, non si cresce.

Se vogliamo, è la situazione descritta da Collodi quando racconta del Paese dei balocchi: lì non c’è scuola, non c’è lavoro, non c’è fatica, la vita sembra tutta una meraviglia a portata di mano; senonché, dopo qualche mese, Pinocchio e Lucignolo si ritrovano trasformati in asini. Che non è appena, come una certa lettura moralistica di Pinocchio ci ha detto, il fatto che non sanno niente; è, molto più radicalmente, il fatto che diventano bestie, cioè perdono la loro dimensione umana, l’umano che nasce dalla continua sfida che la realtà pone. Solo che, per Collodi, il Paese dei balocchi è una bella metafora, e per andarci Pinocchio e Lucignolo hanno scelto, hanno dovuto decidere lasciare il mondo reale; i nostri ragazzi oggi nel Paese dei balocchi nascono e crescono, crescono con l’idea che tutto sia disponibile e facile.

La seconda ragione, in parte connessa anche alla prima, è la paura: i ragazzi oggi si rifugiano nel loro mondo virtuale perché la realtà vera fa paura. Perché sentono il mondo come cattivo, come un pericolo, una minaccia. E questa è veramente una rivoluzione epocale. Perché per una coscienza umana sana il mondo si presenta come un’attrattiva. Il mondo di per sé è bello e buono, attira, chiede di essere scoperto, incontrato, utilizzato. Invece l’atteggiamento predominante nei ragazzi di oggi è la paura. E qui si apre una domanda colossale: da dove nasce questo ribaltamento?

E la risposta è drammatica: la paura dei ragazzi è figlia della nostra.

“Ma io non sono come te / di quello che sarò tu che ne sai?”

Sempre lo stesso ragazzo di prima, in un’altra occasione, ha fatto un’altra riflessione per me illuminante: “Franco, sai che cos’è un maglione?”, mi chiede a bruciapelo. Prima che io possa reagire dà lui stesso la risposta: “È quell’indumento che i figli devono indossare quando le mamme hanno freddo”. E già questa è una risposta non da poco… Ma poi prosegue: “Franco, sai che cos’è Gioventù Studentesca (lui nominò quella, ma ci si può mettere qualsiasi cosa, l’oratorio, i boy-scout, l’associazione sportiva…)? È quell’associazione che i figli devono frequentare quando le mamme hanno paura”.

Da allora, ho visto questa osservazione geniale confermata in infiniti casi: i genitori hanno paura del mondo e vogliono tenere i figli lontani dai pericoli. Pensano che il mondo sia cattivo, e credono che il sistema migliore per tenere lontani i figli dai pericoli del mondo sia alimentare in loro la paura del mondo. La paura che si facciano del male, fin da piccoli: non toccare, non andare lì che cadi, stai attento che se cadi muori… Non parliamo poi di quando diventano adolescenti e cominciano ad andare per il mondo. Qui inizia davvero il Grande Terrore: paura che si droghino, che facciano cattivi incontri, che questo e che quell’altro. E quindi giù a dipingere loro scenari terrificanti, a cercare di vietare tutto il vietabile.

Ma forse, e più profondamente ancora, i genitori hanno paura dei figli: hanno paura della libertà dei figli, hanno paura che i figli non crescano secondo il progetto – buono, per carità, buonissimo – che essi hanno in mente per loro. Come dice il titolo geniale del libro appena uscito di uno psicologo che al lavoro con gli adolescenti ha dedicato tutta la vita, Matteo Lancini: Sii te stesso a modo mio1.

E perciò li affoghiamo nei rimproveri e nelle recriminazioni: “Non sei questo, non fai mai quest’altro, sei sempre il solito…”, seguito da una sfilza di aggettivi negativi – disordinato distratto pigro ingrato e chi più ne ha più ne metta. Il risultato? Quel che un ragazzo ha detto un giorno in un’assemblea di classe a una professoressa mia amica: “Ma, prof, non si accorge che noi non andiamo mai bene a nessuno?” O il successo di una canzone che oggi spopola fra i giovanissimi: “Ma io non sono come te / di quello che sarò tu che ne sai?”2.

Solo che, come scrive il mio amato Collodi, “la fame è più forte della paura”3, che è un’annotazione di Pinocchio, quando il burattino si ritrova in casa da solo, dopo che Geppetto è stato arrestato, e fuori “era una nottataccia d’inferno: tuoni, lampi, vento…”. Sarebbe da stare barricati in casa. Senonché Pinocchio ha fame. E perciò lascia la sicurezza della casa e si lancia nel mondo, per ostile che sia. In questa scena ho sempre visto un’immagine potente della questione che stiamo trattando: possiamo dipingere ai nostri ragazzi il mondo come un luogo terribile, pieno di pericoli tremendi; ma la fame, la fame di vita, la fame di un significato per la vita, la fame di qualcosa che dia significato a tutte le cose pur buone che viviamo, “è più forte della paura”, dei rischi che si possono correre. E se non trova una strada adeguata, quella fame finisce per sfogarsi in surrogati: in comportamenti ribelli ed eccessivi, in quei gesti di violenza gratuita e assurda che troppo spesso riempiono le cronache, fino al suicidio, che – dato terrificante – oggi è la seconda causa di morte fra gli adolescenti.

Il volto buono della realtà

Se tutto questo è vero, allora il problema dell’educazione non sono i giovani: sono gli adulti. Il problema è che i ragazzi si trovino davanti adulti incapaci di mostrar loro che la realtà invece è buona. È buona la realtà, ed è buono il desiderio che Dio ci mette in cuore di incontrarla, di scoprirla; e allora il nostro compito è accompagnare i ragazzi in questa scoperta, mostrar loro il volto buono della realtà, aiutarli a incontrare esperienze, fatti in cui si tocca con mano che la realtà è buona. In una parola, il compito degli adulti è tornare a testimoniare la positività e la bellezza della realtà.

Attenzione: la positività e la bellezza della realtà per sé. Altrimenti succede come a una mamma che ho incontrato tempo fa, che si lamentava che la figlia aveva preso strade sbagliate, e diceva più o meno “e con tutto il tempo che ho perso a portarla a vedere cose buone, la natura, i musei…” “Come, signora, perché dice ‘il tempo che ho perso?’” “Perché se non fosse stato per lei io tutte quelle cose mica le avrei fatte”. I ragazzi hanno un fiuto straordinario: se si accorgono che facciamo qualche cosa “per loro”, sentono subito puzza di bruciato, scantonano subito. I ragazzi hanno bisogno di vedere che facciamo qualcosa di bello e di buono per noi, che rende contenti noi; solo così può scattare quell’invidia sana che può suscitare in loro il desiderio di capire qual è il nostro segreto, perché noi siamo contenti della vita, e perciò perché può essere interessante anche per loro seguirci. Altrimenti inevitabilmente finiscono per domandare, esplicitamente (l’ho sentito con le mie orecchie) o implicitamente: “Mamma, papà, professore, perché dovrei fare come dici tu? Per diventare scontento della vita come te?”

Provo a dirlo con un’immagine forse strana, ma che a me pare molto efficace: la fotosintesi clorofilliana. La fotosintesi clorofilliana è quel fenomeno per cui le piante assorbono l’anidride carbonica e la trasformano in ossigeno. Alle piante non interessa chi passa nel bosco, fanno semplicemente il loro lavoro: assimilano anidride carbonica e restituiscono ossigeno; così, chi cammina in un bosco respira a pieni polmoni. Il nostro compito è fare come le piante: prendere su di noi il male e restituire il bene, portare il peso della fatica e del dolore restituendo letizia e speranza, vivere certi che la vita è buona, così che chiunque passi dalle nostre parti possa respirare, come fa uno che cammina nel bosco.

Sì, Nembrini – mi sono sentito dire decine di volte – lei dice bene, il nostro compito è testimoniare la positività e la bellezza della realtà: ma con questi ragazzi come si fa? Con questi ragazzi così maleducati, così incapaci di fatica, così persi nei loro smartphone, così questo, così quell’altro…

Il raglio dell’asino

Signori, rispondo sempre, guardate che tutte le cose che rimproveriamo ai nostri ragazzi non sono altro che il raglio dell’asino di Pinocchio.

Mi spiego. Siamo verso la fine del racconto di Collodi, Pinocchio è diventato un asino, è costretto a esibirsi in un circo, tutto ricoperto di nastri e lustrini. E qui, in mezzo alla folla che si fa beffe di lui, quando fa il gesto fondamentale dell’umano, alza la testa, Pinocchio vede la Fata. Perché nemmeno qui, al fondo dell’abiezione, la Fata lo abbandona. E qui, alla vista della Fata, tutto preso dall’entusiasmo per la presenza di lei, lancia il suo grido: “Oh Fatina mia! oh Fatina mia! Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori”4.

Invenzione straordinaria, perché fotografa con un’immagine strepitosa la situazione di tutti i nostri ragazzi. Che cosa sono infatti i nostri ragazzi, se non tanti Pinocchio in cerca della loro umanità, in mezzo a un mondo che fa di tutto per ridurli a bestie ricoperte di lustrini? E quando vedono un lampo di luce turchina, uno spiraglio di cielo, qualcosa di bello, che cosa fanno, come Pinocchio, i nostri ragazzi? Gridano, implorano. Senonché non sono capaci. Non sono capaci di articolare un suono davvero umano. Dal loro desiderio male educato esce un rumore inarticolato, un grido straziato. Che cosa sono infatti tutti i loro gesti scomposti, i loro atti eccessivi, le loro sfide sgraziate, se non questo raglio dell’asino? Il raglio dell’asino, il grido di chi chiede uno spiraglio di cielo ma non è capace di dire il suo bisogno vero; e allora lo scaglia verso il cielo come può, come sa, con le forme e i modi un po’ animaleschi che sono i soli che è in grado di adoperare.

E allora, davanti al raglio dell’asino dei nostri ragazzi, la risposta qual è? È l’altro nome dell’educazione: è la misericordia. La misericordia è il gesto di chi abbraccia l’altro così com’è, di chi vuol bene all’altro così com’è, di chi è disposto a dare la vita per l’altro così com’è, senza chiedergli prima di cambiare – come facciamo tutti: “ti vorrei più bene se tu…” –, come Cristo, che “mentre eravamo ancora peccatori, morì per gli empi” (Rm 5, 8).

Per la mia esperienza, di questo hanno bisogno i giovani, oggi: di una casa dove poter dire, come ho sentito da uno di loro, “che bella una casa dove si sta così bene che si può anche star male”, di un adulto che, certo e lieto della vita propria, sia disposto ad abbracciarlo così com’è.

NOTE

1. M. Lancini, Sii te stesso a modo mio, Raffaello Cortina, Milano 2023.

2. Pinguini tattici nucleari, Scatole, testo e musica di Riccardo Zanotti.

3. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. VI.

4. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. XXXIII.

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